28.10.06

Forough Farrokhzad vista da Gina Labriola

[letteratura -2]
Per noi, nel terzo millennio, in Medio Oriente come in Occidente, in Italia come in Iran, chi è, Forough Farrokhzad? La risposta non può essere che una: non ERA, ma E’ un poeta, senza distinzione di patria, di sesso, o di epoca. Forough Farrokhzad è nei versi che parlano del vento che porta via foglie e illusioni, di finestre spalancate e chiuse, in amori dolci e violenti, di dio e del diavolo, di sesso e di apocalisse, di orride profezie e di bambole meccaniche, di bambini, di voglia di vivere e desiderio di morte, di piccole fate e di perle: tutto, in una costante, inquietante contraddizione (…).
Forough era una donna colta, ma le sue immagini, le sue metafore, i suoi ossimori, pur derivando da un’elaborazione raffinata, da una millenaria cultura, sono come DISTILLATI nell’alambicco della memoria, tessuti in un ordito quotidiano, in uno slancio, (tormento, gioia, dolore, rabbia, violenza, sfida, dissacrazione e pentimento) che non ha bisogno di commenti, di note e piè di pagina, e riesce a parlare perfino quando è presentata, oggi, davvero a destra e a manca, anche in raffazzonate pagine di internet, spesso in pessime traduzioni o perfino, come mi è stato riferito (non ho potuto avere conferma) sulle magliette dei fans. Il contenuto, sempre vario, gioioso o drammatico, religioso o blasfemo, sensuale, sentimentale, nostalgico, o rabbioso e dissacratorio, espresso in una forma che è solo sua, in una elegante (apparente) semplicità, nella freschezza delle immagini prese in prestito anche dalla più banale vita quotidiana (il bottone di una scarpa, l’occhio di vetro di una bambola, la tenda, oppure un corpo steso come la rugiada sull’iris del mio corpo… Nessuna parola di traduttore o di professore vale la lettura diretta dei suoi testi che ci è dato presentare in traduzioni. Anche se la traduzione è sempre un tradimento.La lettura dei testi originali ci da un’idea della musicalità dei suoi versi. Avrei detto tutto sul “mitico” personaggio di Forough Farrokhzad. Ma io sono qui, chiamata quale “testimone oculare”, che l’ha conosciuto personalmente.
L’ho incontrata spesso, dal 62, quando arrivai in Iran, fino alla sua morte, nel ’67, in circostanze che presentano inquietanti coincidenze. Non ricordo quando la vidi la prima volta, ma non dovette farmi una grande impressione. Non riesco neppure a stabilire nella memoria se conobbi prima la poetessa, attraverso i testi tradotti con Nadèr Naderpur e la discreta, pudica presentazione VERBALE che ne faceva colui che era stato notoriamente uno dei suoi amanti e dei suoi primi PRESUNTI Pigmalioni. Ne ebbe tanti, Forough, di Pigmalioni, veri o presunti, che si vantarono più tardi di aver creato la sua personalità di poeta e la sua fama. Ognuno delle importanti personalità culturali MASCHILI a cui – dopo la morte di lei – chiesi notizia, mi rispondevano invariabilmente: “ L’ho aiutata io. L’ho fatta io… e poco ci mancava che dicessero: l’ho inventata IO, lei neanche esisterebbe, senza di me”. Potrei farvi dei nomi, ma vi sarò grata se mi crederete sulla parola. La gente superficiale, male informata, o in mala fede, negandole ogni originalità, la identificava con Golestan, il Padre-padrone-pigmalione; ho paragonato la coppia Forough Farrokhzad e Ebrahim Golestan alla coppia Camille Claudel - Auguste Rodin, mutatis mutandis, e in altro contesto; la storia di un’altra donna, un’altra artista, che ebbe un destino diverso, ma altrettanto drammatico. Nadèr mi parlò della poesia di Forough e mi suggerì di tradurla. Delle loro vicende personali ho saputo molti anni dopo solo attraverso il volume di Craig Hillmann che si dilunga sull’argomento, direi con insistenza quasi morbosa.Ma un po’ curiosi lo saremmo un po’ tutti; anche io avrei voluto sapere tante cose della vita di quel non comune “personaggio”, pirandelliano “post litteram” che mi fu dato incontrare, e che rimane tanto più intrigante quanto più è complesso e misterioso.Come ho detto, non ricordo più se conobbi prima la poesia o il poeta, prima i suoi versi, o “il personaggio” in carne e ossa. Era un vero Personaggio, uno di quei Sei che si presentarono a Pirandello e lo costrinsero a scrivere nel 1921 la nota pièce che fu rappresentata in mezzo mondo, e anche a Teheran nel 1963.Fu, forse, in quella occasione che conobbi la prima volta personalmente Forough. Fu chiesto all’Istituto Italiano di Cultura di poter usufruire di una elegante piccola sala che serviva per proiezioni di film, spettacoli teatrali, conferenze o concerti: era di proprietà dell’Ambasciata, ma più o meno a “mezzadria” con la Nunziatura Apostolica. Per ogni manifestazione culturale che l’Istituto doveva svolgervi, bisognava passare per tre tipi di censura. Se si trattava di un concerto, di una conferenza – che so io – su Pompei o su Dante, la cosa andava abbastanza liscia – roba asettica - ma se si tratta di cinema o teatro…ahi! Prima di tutto l’Ambasciata:“Di che roba si tratta? Che figura fa l’Italia? E’ roba di prestigio?” Veniva poi la censura iraniana:“Si parla di politica? Di ribellioni, di rivoluzioni, di democrazia, di Re, di roba del genere? No? E allora passi!“ Si faceva ciò che si poteva, ed era già tanto in un paese tagliato fuori dalla cultura europea, malgrado la RELATIVA apparente apertura dello Shah e i viaggi all’estero dell’intellighentia iraniana. Non dimentichiamo che, malgrado qualche aspetto positivo e i romanzetti dei rotocalchi, l’Iran era sotto un duro regime dittatoriale. La più difficile, la più imprevedibile era la censura della Nunziatura. “Si parla di sesso? E’ immorale?” Ma anche se non si parlava di sesso veniva fuori una certa ruggine, non so che antico rancore tra Stato e Chiesa, e i bastoni tra le ruote venivano sempre dalla segreteria della Nunziatura.E Pirandello? I Sei Personaggi? Con una vera entremetteuse e relativo bordello, e un mezzo incesto annunciato??? Per fortuna nella segreteria della Nunziatura, dove si decideva dei programmi della contesa sala, nessuno aveva ancora letto I Sei Personaggi di Pirandello.“Pirandello? Ma è un premio Nobel… ed era anche accademico d’Italia!” Fu accettato il premio Nobel che era stato anche Accademico d’Italia. Incominciarono le prove, compatibilmente con gli orari e i programmi del prezioso teatrino. Vi si organizzava una corale. Pubblico e cantori erano quasi esclusivamente armeni, molto religiosi e appassionatissimi a musica e canto. Io, passione pirandelliana a parte, assistevo alle prove anche per evitare un possibile incidente diplomatico qualora qualcuno dei bigottissimi cantori avesse incontrato Madama Pace col parrucchino fiammeggiante e la faccia in tecnicolor. Fu probabilmente nel conteso teatrino, alle prove per la pièce di Pirandello, che incontrai Forough: una ragazza né alta né bassa, né bella né brutta, piuttosto legnosa e scostante, ma forse solo per discrezione o timidezza. Per tutto il tempo delle prove (un mese? due?) non mi rivolse la parola, rispondeva appena al mio saluto. La regista era Pari Saberi, una signora bella, elegante, gentile, con una certa sufficienza. La “madre” era Shallàh, l’ex moglie di Naderpour, bellissima, a cui non piaceva troppo rappresentare una vedova avvilita. Il figlio era Firouz Behnàm, un mio affezionato e carissimo allievo. E la Figliastra? Era naturalmente Forough! Mi chiedevo, e mi chiedo ancora: “Come ha fatto Luigi Pirandello, siculo, a scrivere, nel 1921, una pièce per un’attrice persiana, che non era ancora nata?". Forough, nata a Teheran nel 1935 aveva un anno quando morì Pirandello, nel 1936. In nessun palcoscenico dove ho incontrato i Sei Personaggi, in Francia, in Italia, nel Nord, nel Sud, nessuna “figliastra” fu mai così VERA come Forough Farrokhzad. Rivedo la sua rabbia, quando tendeva le braccia nude e nodose (e pelose), contro il Padrigno, sento le sue urla… Ma chi era per lei il “Padre”, o piuttosto il padrigno contro il quale scatenava quella sua rabbia? Era il suo, il Padre naturale, il militare burbero e severo? Era il marito da cui era fuggita, abbandonando il figlioletto? Era lo Shah Palhavì? Era Golestàn, l’amante amato con ardore, forse con riconoscenza, frustrazione e sottomissione, rabbia e odio? Già: Golestàn, il patron, il Padre-Padrone-Pigmalione: era lì, sempre lì, assisteva alle prove, discutendo talvolta animatamente con Madame Saberì. E Forough ascoltava, sottomessa, dimessa, talvolta batteva i denti, per il freddo o piuttosto per l’emozione, dopo che aveva provato una scena particolarmente violenta.Golestan indossava un pustìn. Era un bell’uomo, doveva avere sui 45 anni, robusto, imponente. Il pustìn era un pellicciotto di montone rovesciato, ricamato, con la lana all’interno, elegante, ma con un tipico odore di pecora che non scompariva neanche dopo anni. Imponente, Golestàn, specialmente con il pustìn, aveva l’aria di un orso… no, piuttosto di un arcaico re-pastore.Ibrahim Golestàn, dunque, era il co-direttore della troupe, co-regista della pièce. Autoritario, ma mi sembrava di capire (nel ’63 sapevo poco il persiano) molto competente. Ebrahim Golestàn era gentile, cordiale, con un’eleganza venata di umorismo. Durante le pause, accettava da me un wisky o un caffè che portavo in un termos, mentre Forough, la Figliastra, se ne stava in un canto con i capelli sugli occhi, e continuava a rodersi in quell’odio che la divorava, stringendosi continuamente la cintura del vestito, come se volesse segarsi in due. Era un suo tic, come quello di velarsi la faccia con i capelli. I capelli sono un leit-motiv della sua poesia.Ebbi un ruolo anch’io: dovetti fabbricare in fretta e furia un cappello da vedova. La costumista persiana aveva presentato un turbante civettuolo, tutto pennacchietti e nastrini. Pescai una foto della rappresentazione dell’opera, tinsi di nero un mio cappellino di feltro e lo coprii con un pezzo di un vecchio ciadòr nero – velato - cedutomi dalla mia cameriera che se ne era servita come zanzariera. Shallàh velata, bellissima e sexy era poco credibile. Forough figliastra vendicativa e rabbiosa? Ma quale tenerezza quando si rivolgeva alla sorellina! Quella bambina che Pirandello destina a morire annegata nella vasca proprio come “il piccolo Alì” in una bellissima lunga composizione della poetessa. Be Alì goft madarash ruzì: Ad Alì disse un giorno la mamma: Un bambino, Alì, è sul bordo della vasca, hose (quante ce n’erano, nei giardini persiani, di pericolose piscine!); un pesciolino d’argento lo invita a raggiungerlo, con lusinghe e promesse, Alì cade nell’acqua e annega, seguendo un misterioso miraggio. Amava i bambini, Forough. Amava la Rosetta pirandelliana, amava il piccolo Alì, amava disperatamente il suo Kamiàr, abbandonato quando era piccino. Volle sostituirlo – forse – con un bimbo figlio di lebbrosi che conobbe nella “Casa nera” e che adottò. Un gesto “plateale”, dissero. Il bisogno di una platea – che può riempire un vuoto – non è in contraddizione con la sincerità del sentimento. Nella poesia "Il diavolo della sera" lei, la madre, ha sulle ginocchia il suo bambino e cerca di rassicurarlo:Il diavolo della sera…: con duecento occhi, fuoco e sangue, spia dalla finestra…/Gli grido “Vattene!” Ci sono qua io, sveglia, non puoi portarmi via il mio bambino!. Ma il diavolo della sera mi risponde:” Basta! Non ho paura di te! Il tuo grembo è ruggine di peccato…Io sono un demonio, tu sei più demonio di me” Muore il grido, nel fuoco del dolore, fonde come ferro il mio cuore, e grido:”Camì, Camì! Togli la testa dal mio grembo!”
Poetessa? Attrice? Madre disperata, chi era, Forough Farrokhzad? Quando la conobbi, viva e reale, in carne ed ossa, con le sue umane contraddizioni, non ancora mitizzata, non ancora simbolo, trasformata in ICONA, stampata sulle magliette dei fans?Una creatura umana destinata a diventare un mito, un’ICONA, dovrebbe avere un segno speciale…che so io, una stella sulla fronte, o emanare un profumo particolare.. Se così fosse, se Forough avesse avuto un “SEGNO” della sua mitizzazione futura (una stella in fronte, un profumo speciale…), avrei cercato – allora – tanti anni fa - di fare più attenzione alla sua persona reale, parlarle, spingerla a parlarmi, fotografarla,… anche se di fotografie ce n’erano in giro tante, in tutte le pose… Tante foto (quasi mai sorridenti), segno che un certo narcisismo la nostra rabbiosa “Figliastra” doveva averlo, segno che il Signor Golestan, cineasta e fotografo raffinato, aveva nella rabbiosa “Figliastra” una validissima Ninfa Egeria, tanto da trasformarla in una fascinosa Diva, attraverso un numero infinito di immagini fotografiche. E allora non c’era la digitale! Famosa, sì, quando la conobbi, ma non più di molte altre giovani o meno giovani donne che si affermavano nel campo delle arti. Potrei farvi molti nomi di donne celebri allora, note ancora oggi tra gli esuli persiani a Parigi. Dunque: poetessa? Attrice? Madre delusa o colpevole? O cineasta sensibile e raffinata? Nel documentario La casa è nera (Khanè siàh ast) riesce a rendere poetica (con i suoi testi e la sua voce) uno degli aspetti più terribili della malattia e della miseria. In Fuoco (Atesh) un incendio nella zona petrolifera diventa un tema da Apocalisse. Il documentario è di Golestàn, ma non sappiamo quanta parte vi avesse la sua aiutante, la sua versatile, intelligente Egeria, che così drammaticamente ebbe nei suoi versi il senso dell’Apocalisse. Poetessa? Attrice? Madre disperata, cineasta abile e sensibile, o polemista rabbiosa e aggressiva? Forough confondeva i ruoli, e continuava ad essere Figliastra vendicativa, anche alle conferenze all’Istituto Italiano di Cultura, e continuava a vedere un Padrigno e Padrone anche in un professore bonario e grassoccio che raccontava di datazioni su tombe rinvenute, di anfore, scheletri e cocci…Dovevamo gestire, far conoscere la nostra cultura passando, come ho detto, attraverso tre tipi di censura, alle quali si aggiungeva una quarta importante esigenza. L’Istituto italiano di Cultura, oltre che dal MAE, dipendeva anche dall’’IsMEO (Istituto italiano per il Medio e Estremo Oriente. Fondatore e Presidente era il famoso orientalista, archeologo, sinologo, esploratore Giuseppe Tucci, mio patron per 11 anni, temuto e amato maestro e amico). L’IsMEO organizzava e gestiva un’ imponente campagna di scavi nel Sistan e un ancora più imponente lavoro di restauro, a Isfahan soprattutto, ma anche a Shiràz e Persepolis (restauri di affreschi, ma anche il marmo e la pietra). Era comprensibile che si chiedesse a specialisti iraniani (storici, insegnanti, critici d’arte) una collaborazione culturale, con lezioni, conferenze e dibattiti sui siti degli scavi o sui monumenti affidati per il restauro ai nostri specialisti. Sì, però… Era invitato spesso un vecchio signore bonario, un erudito di grande finezza, che aveva anche il merito di aver trasformato la sua antica bellissima casa in un vero museo destinato, alla sua morte, allo stato. Un uomo del regime? Non parlava di politica ma illustrava pietre, anfore, scheletri, cocci, un po’ da erudito, un po’ da innamorato (delle pietre). Sì, però… Pietre, anfore, scheletri, cocci, antichi reperti? Sì, però davano esca al delirio dinastico di Reza Pahlavì che si inventava una discendenza dai re Achemenidi e si preparava a festeggiare con ostriche e caviale, vodka e champagne i 2500 anni dell’impero iraniano, in compagnia dei super-super potentissimi del pianeta, tra i suoi “predecessori” gli Shah-in-Shah, i Re dei Re di Persepolis, i suoi predecessori che lo guardavano con i loro occhi di pietra, impassibili, dall’alto dei millenni (Ciro, Dario, Serse, Cambise…) Forough era sempre presente in un gruppetto di scalmanati per cui il vecchio professore bonario e grassoccio era solo una “cariatide”, uno zimbello, oggetto delle più feroci aggressioni verbali. Mentre il conferenziere mostrava un’innocente diapositiva di un vaso o una pietra, si scatenava un turbolento disordine. “Maraze ghand mighirim: Ci fate venire il diabete!!!” qualcuno gridò, una volta, dal fondo della sala. Era Forough? Non posso dirlo. Certamente lei era lì, forse suggeriva, certo approvava. Le storie raccontate dalle pietre, da una coppa strappata al tempo e alla sabbia, erano sdolcinatezze ridicole, che facevano venire “il diabete”, maraze ghand, la “malattia dello zucchero”. Era un pretesto per aggredire chi in qualche modo facesse parte del mondo accademico, in un certo senso ufficiale, che per gli scalmanati si identificava, quindi, con il regime. Forough continuava a recitare una parte, continuava ad essere la “Figliastra” umiliata e offesa tendendo minacciose le braccia nude, nodose e pelose, in costante atteggiamento provocatorio? A vederla arrivare nelle manifestazioni ufficali si tratteneva il respiro… Vivevo anche io la mia storia, che divenne poesia – buona o meno buona non posso dirlo io, divenne favola; vivevo un periodo di esperienze ricchissime e di incontri interessanti, ma tutto era sofferto, tutto costava fatica, tutto, in qualche modo, si scontava, si pagava. Undici anni. Avevamo portato in Iran il nostro bambino di un anno. Altri due videro la luce a Teheran, aprirono gli occhi su quel cielo abbagliante. Tutti e tre ne furono incantati, ammaliati per sempre.Forough non conosceva sfumature, tranne che nei suoi mirabili versi… Facevo parte del “mondo ufficiale”, non le ero simpatica, non aveva niente da dirmi, e semplicemente mi ignorava. Del resto, aveva lo stesso atteggiamento nell’intervista qui stasera ascoltata: “La mia vita? Come tutte le vite: una data di nascita, un luogo, un matrimonio… La mia poesia? Non ho finito, devo ancora lavorare e non ho niente da dire!” Poetessa? Attrice? Madre delusa e tormentata? Cineasta? Agguerrita polemista? O povero pulcino smarrito, letteralmente bagnato, inzuppato, in un diluvio non metaforico? Così è, se vi pare… Chi era veramente Forough Farrokhzad? Uno, nessuno e centomila. Una sera Ebrahim Golestàn era ospite a casa mia, al terzo piano dell’Istituto (casa e bottega), quando, verso la fine della cena, sentii suonare al cancello del giardinetto. Al citofono una voce strozzata, quasi un singhiozzo: “Sono Forough!” Molte cose ho dimenticato, ma non quella voce, quella sera! Era una sera da tregenda, tuoni e fulmini e soprattutto pioggia e grandine. Rara, in un clima asciutto come quello di Teheran; quando la pioggia veniva giù, spesso improvvisa, sembrava che il cielo si spalancasse e volesse distruggere, ingoiare ogni cosa. I giùb , i rigagnoli che scorrevano (e scorrono ancora, mi dicono) lungo quasi tutte le strade di Teheran, diventavano torrenti, allagavano il selciato e penetravano nelle case.Forough salì, a casa mia. Grondava, i capelli erano rivoli d’acqua; scivolava sulle scarpe, dai tacchi ormai liquefatti, tutte inzuppate. Un vero pulcino bagnato, spaventato, perso… e Golestan la sgridò. Non capii che cosa le disse: c’era stato tra loro un malinteso? Lei lo aveva cercato o seguito in casa mia, dove non era stata invitata, probabilmente per ragioni di opportunità diplomatica.Quella sera la celebre poetessa, la feroce polemista grondava acqua. Davanti al “padre patrigno padrone pigmalione”, sembrava una scolaretta colta in flagrante. La poesia era liquefatta, inzuppava i miei tappeti che, persiani com’erano, non temevano nulla, abituati a tutte le tempeste, le piogge, i ruvidi lavaggi, i calpestamenti dei piedi. Le porsi un asciugamano, le proposi un vestito asciutto, l’invitai a cambiarsi. Chi aveva visto prima di allora una Erinni con asciugamano? Rifiutava, sempre con quell’aria scontrosa che le affiorava sul volto tra il ruscellare dei capelli. Accettò, infine, di asciugarsi e cambiarsi. Scelse, quasi senza guardare, tra i miei modesti vestiti… (non, non sono mai stata una signora elegante) un vestituccio a righe. Avevamo più o meno la stessa taglia, ma il vestituccio era uno dei miei pre-mamàn... Le stava largo, ma lei raccolse da terra la sua cintura bagnata e se la strinse intorno alla vita, stringendo, stringendo come se volesse segarsi in due… (come ho detto, avevo osservato già altre volte il tic di stringersi la cintura). Si strizzò i capelli attorcigliandoli, era una Erinni che usciva dalle onde, e i serpenti erano flosci… sembravano ciocche di capelli bagnati. Passò qualche mese.Ero di nuovo nel teatrino, per assistere alla proiezione di un film. No, purtroppo non ricordo di quale film si trattasse. Sibilò una notizia, strisciante, inquietante. Questo lo ricordo perfettamente: “Forough ha avuto un incidente…dopo una lite con lui… ancora una lite… è ferita… è morta. Forough è morta. Veniva all’Istituto. Veniva per vedere un film italiano”. Voleva assistere alla proiezione di un film, ma voleva anche “restituire qualcosa, all’Istituto.” Due settimane dopo nacque il mio terzo bambino, Valerio. Il vestituccio a righe, pre-maman, non mi serviva più. Forough era morta, e voleva venire a “restituire qualcosa”. Pensai che quel “qualcosa” fosse il mio vestituccio a righe, pre-maman…null’altro aveva mai preso in prestito, all’Istituto. Fakri Golestan, la moglie di Ebrahim, si occupò di tutte le penose faccende pratiche che porta con sè la morte, specialmente una morte tragica e improvvisa. Più tardi creò una Fondazione nel nome di Forough Farrokhzad.Ma chi era Fakri Golestan? Quante cose si son dette, quante se ne potrebbero dire, sulla sorte di due donne rivali. L’amore di un uomo le divideva, o le univa? Alcuni anni dopo le chiesi, con un secondo fine forse fin troppo evidente:“Mi occupo di traduzioni. Lei… chi mi suggerirebbe, tra i poeti persiani contemporanei?”E allora comparve sul volto della dolce, cortese Fakri, una smorfia che somigliava al ghigno della pirandelliana “Figliastra”. “Non ci sono poeti persiani. Uno ce n’era. UNA. ED E’ MORTA”. Per Fakri Golestan, il “solo ” poeta degno di essere ricordato era la sua rivale! E’ morta la “Figliastra” rabbiosa, è morta la polemista aggressiva, è morta la Erinni, la Gorgone dai serpenti afflosciati, è morto il povero pulcino bagnato e spaventato, portandosi dietro il mio vestituccio a righe, ma IL POETA è vivo, il poeta è con noi con tutte le sue contraddizioni; la sua rabbia è sublimata nei suoi versi, una rabbia poetica che non bruciava per umane banali circostanze, ma era predizione di cosmiche apocalissi. Spalancate le sue finestre nel buio della notte, solo la voce resta… e il vento ci porterà via. Religiosa e blasfema, mistica e sensuale, il sesso (ardito sì, ma senza oscenità, sempre con l’eleganza della vera poesia) è il rituale di una nuova religiosità che non esclude il senso di colpa. Le spalle di un maschio sono il mohre namàz il “sigillo di preghiera” la pietra sacra su cui il credente appoggia la fronte nelle genuflessioni. (Ahi, quale problema per il traduttore!). Sulle tue spalle, rocce di granito dure e superbe, /cascata di luce, ruscella l’onda dei miei capelli./ Sulle tue spalle/ muro di cinta di un mirifico castello/ danzano come rami del salice/ le ciocche dei miei capelli./ Le tue spalle nella rfirazione del sole/ sotto le gocce lucenti e tiepide di sudore/ sfavillano come cime di montagne./ Le tue spalle, sigillo di preghiera,/le tue spalle, Mecca dei miei sguardi appassionati. Ma il “diavolo della sera” minaccia la madre dal “grembo pregno di colpe, ruggine di peccato”. La donna ardita, ribelle, madre che si dispera e si colpevolizza e si accusa, si trasforma in una bambola meccanica, che guarda il mondo con due occhi di vetro. La piccola fata che muore e rinasce in un bacio si trasforma nella ribelle che vuole “capovolgere l’Universo” e “ far liquefare la moneta del sole nel forno delle tenebre”. Un senso della disfatta, dell’Apocalisse, della profezia, serpeggiava a quel tempo tra i poeti. Naderpur scriveva Dal cielo alla corda (Dar asseman to rissman) ” E seccato il piracanto e l’alchimia del tempo ha tramutato il fuoco della profezia in oro e sangue…gli uccelli non sono più di carne, sono di terrore e di acciaio…” Nei Versetti terrestri Forough scriveva: Allora il sole si raffreddò, la grazia della fertilità fuggì dalla terra…sconfitta la mirifica forza della profezia…Forough: Erinni, Sibilla, o Cassandra, prevede un capovolgimento nel suo paese, e VEDE la propria morte e tutto quello che sarebbe accaduto DOPO “Sconosciuti verranno a frugare toccheranno i miei libri e i miei quaderni… un estraneo verrà dopo di me col mio ricordo. Sullo specchio l’impronta della mano, un capello, un pettine. ”Siamo noi quell”estraneo sconosciuto” che fruga nelle sue carte e nella sua vita ma solo per capire il mistero del suo fascino, solo per vedere la DONNA attraverso il mito, la fragile creatura nella sofferenza e nelle contraddizioni che danno vita alla sua poesia. Chi era Forough Farrokhzad? Era un poeta. Solamente un poeta.

(relazione tenuta all'Università di Perugia, 24 ottobre 2006)
by Gina Labriola

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6.10.06

Il nome della rosa di Umberto Eco: "chiusura" o "apertura" dell'opera?

[letteratura -1]
1.1. Durante l’opera di scrittura, l’autore ha sempre in mente un lettore o una categoria di lettori a cui indirizzare la sua opera, e un’opera veicola sempre un messaggio o messaggi che possono o non possono essere nel testo.
Nel processo comunicativo abbiamo dunque un emittente che è l’autore, un messaggio che è il testo e un destinatario che è il lettore. L’autore, durante la scrittura, non solo immaginerà un lettore modello capace di muoversi durante la lettura come lui si era mosso durante la scrittura, ma lo creerà attraverso la scrittura stessa.
Ora, proprio tenendo presente il lettore o la categoria di lettori cui il testo si riferisce, l’autore costruirà dei testi che saranno più o meno aperti o più o meno chiusi nell’interpretazione.
Se un testo che definiamo aperto ha infinite possibilità di interpretazione e di godimento, un testo chiuso è più resistente, concepito nell’intento di dirigere repressivamente la cooperazione, lasciando sempre spazi d’uso abbastanza elastici.
Il nome della Rosa sembra innestarsi perfettamente su questa problematica. Tutti sulla scorta della produzione saggistica di Eco e delle sue tesi narrative si sono chiesti: questo romanzo è o non è un’opera aperta?
La critica si è subito divisa sulla questione: da una parte chi ha considerato il romanzo un’opera aperta, dall’altra chi ha visto nel romanzo un’opera chiusa. Secondo alcuni critici e secondo la studiosa Maria Corti il romanzo sarebbe “un’opera chiusa”, totalmente chiusa in se stessa
[1].
Questo può essere giusto giacché lo stesso Eco in "Opera Aperta" ha definito il giallo come un caso particolare di opera chiusa, in cui regna inizialmente un ordine stabile e che non permette alla fine alcuna alternativa possibile.
Se consideriamo il romanzo da questo punto di vista, Eco ha fornito un modello di opera chiusa, ma Il nome della Rosa non è solo un giallo, è un romanzo storico-medievale, un poliziesco, un romanzo ideologico e allegorico: è dunque chiuso solo sotto l’aspetto del giallo, ma aperto da tutti gli altri punti di vista. Nel romanzo di Eco, convivono, a mio parere, opera aperta e opera chiusa
[2].
Per lo scrittore bolognese, ciò che conta, non è la varietà di apertura, ma la struttura labirintica del testo, e Il nome della Rosa è labirintico, per i racconti che si incrociano e si intrecciano sottilmente, iscrivendosi l’uno sull’altro, per l’intertestualità e le citazioni (implicite) di numerosi altri testi, per i segni e i significati simbolici sparsi qua e là tra le pagine, per le ambiguità e gli intrighi narrativi.
Eco infatti, fin dall’inizio, sfida il lettore a leggere il romanzo come un’opera aperta: la copertina è dominata dalla pianta ottagonale della cattedrale (labirinto) di Reims che propone lo schema labirintico della scrittura, il periodo storico è un’ètà labirintica come il medioevo, il luogo una grande abbazia e una misteriosa biblioteca.

1.2. La “labirinticità” del testo è determinata dalla contaminazione dei racconti che si incrociano; racconto storico-filosofico, giallo, ideologico-allegorico, ed è questa pluralità di generi che ha coinvolto diverse categorie di lettori e ha reso il romanzo un “caso” e una passione ovunque.
All’interno del romanzo due sono i filoni conduttori che si intersecano a vicenda e sono: i delitti dell’abbazia con la ricerca del colpevole, e l’incontro dei messi del Papa con quelli dell’Imperatore, nel tentativo di trovare una soluzione al problema della povertà di Cristo. Accanto a questi fili conduttori numerose sono le divagazioni, comunque importanti, che determinano la sospensione e il rallentamento del racconto.
La narrazione vera e propria è inserita in una doppia cornice; in una prima introduzione viene descritto il modo in cui l’autore entra in possesso del manoscritto di Adso, poi c’è un prologo nel quale Adso fornisce alcune spiegazioni generali sulla politica del suo tempo e il motivo per cui ha dato origine al racconto, tema ripreso ancora una volta alla fine della narrazione dei fatti nell’ ”ultimo folio”.
E’ chiaro dunque che nel romanzo si mescolano elementi assolutamente verificabili con altri chiaramente inventati, così che anche un lettore esperto a volte perde il senso dell’orientamento.
Questi criteri interpretativi si applicano al testo nella sua completezza, per quanto riguarda invece la storia vera e propria, cioè il racconto di Adso che descrive le sue esperienze di novizio nell’anno del Signore 1327, essa si articola in sette giornate, che a loro volta sono divise in giorni e ore di preghiera; sette monaci trovano la morte nei modi più strani, a un certo punto, dopo la quarta vittima, la Santa Inquisizione sembra aver trovato i colpevoli, ma la serie dei delitti non si arresta.
Anche lo schema strutturale è sfasato e ingannevole: la divisione in sette giorni è molto variabile, giacché un uso libero delle ore canoniche permette di restringere e di dilatare il tempo secondo il desiderio dell’autore, per esempio il settimo giorno si svolge unicamente di notte.
I morti poi non scandiscono i sette giorni, perché il quarto giorno i delitti si interrompono. Severino muore nel corso della quinta giornata, mentre il quarto giorno non succede niente. Il settimo giorno infine muoiono due persone (la sesta e la settima), Abbone e Jorge.
Le vittime sono sette, ma in effetti potrebbero essere di più o di meno, è solamente un caso che siano tante. Bencio infatti avrebbe dovuto morire e solo per caso non ha letto il “libro”, Malachia non avrebbe dovuto morire e muore, anche i due protagonisti, Adso e Guglielmo, avrebbero dovuto morire. Inoltre non tutte le vittime hanno e le dita macchiate di nero e ciò crea un’ulteriore sfasatura nel lettore: Adelmo si è suicidato, Severino muore diversamente e così anche il povero Abbone.
La soluzione del mistero è resa ancora più difficile dal parallelismo degli assassini con episodi dell’Apocalisse di Giovanni, falsa pista che alla fine si rivela essere non altro che una correlazione casuale: Guglielmo arriverà ugualmente alla verità ma aiutato da un sogno del giovane Adso sulla Coena Cypriani e da un suo intervento casuale che gli permetterà di capire il modo per entrare finalmente nel “finis Africae”.
[1] Cfr. “E’ un’opera chiusa”, l’Espresso 19 ottobre 1980
[2] “Noterelle e schermaglie” da Belfagor, luglio 1982, p.47
by Maria Pina Ciancio

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5.10.06

Storia e poesia nel “Nuovo mondo” di Emanuele Crialese

[pellicole -3]
"Nuovo mondo", il nuovo film di Emanuele Crialese, è la storia di alcuni emigranti siciliani che si imbarcano per raggiungere gli Stati Uniti agli inizi del novecento per lasciarsi alle spalle una quotidianità di stenti, di fatica e di dolorosa staticità. Si parte dalla Sicilia arretrata degli inizi del 900 in cui povertà e fame sono all’ordine del giorno in cui la superstizione e le antiche credenze regnano sovrane ed incontrastate. Terribili le immagini iniziali di piedi sanguinanti che scalano montagne di sassi fra asini e pecore, una storia dimenticata da noi eppure ancora presente nei racconti di qualche nostro anziano. E’ una quotidianità descritta magistralmente ad esempio nei libri di Carlo Levi. Queste immagini mi hanno evocato, strana fantasia iconica, il quadro di Van Gogh “I mangiatori di patate”. Il miraggio del nuovo mondo spinge la famiglia Mancuso a vendere tutto: casa, terreni, bestiame e ad imbarcarsi per cercare nuova vita, soldi e benessere. Il primo ed immediato riferimento in questo caso è l’esodo biblico verso la terra promessa e in generale tutti gli esodi e le diaspore. I contadini sognano questa terra promessa: un nuovo mondo dove ci sono ortaggi giganti, soldi che crescono sugli alberi, galline grandi come un uomo e dove le strade quelle della California sono invase da latte e ci si può fare anche il bagno dentro!. Si tratta di un nuovo mondo che hanno a malapena intravisto in fotografie o cartoline, fotomontaggi contraffatti, che raffigurano piccoli uomini in compagnia di ortaggi giganteschi che crescono nel nuovo mondo, alberi che portano come frutti soldi. Questa comitiva pronta all’esodo è formata da Salvatore Mancuso insieme ai due figli, alla dispettosa ma buona madre di Salvatore e da due giovani ragazze in cerca di marito nel nuovo mondo. In un silenzio irreale e scandito solo dal rumore della nave inizia il distacco dalla terra madre abilmente evocato iconograficamente mediante una serie di fotogrammi che mostrano pian piano questa frattura-distacco dalla terra ferma. Comincia il viaggio: stipati come bestie, divisi per sesso questa umanità dolente e disperata ma al contempo anche genuina e piena di speranza è imbarcata su questa enorme nave. Durante il tragitto in mezzo all’oceano, fra tempeste e condizioni disumane accade qualcosa di importante: tutti i maschi, compreso Salvatore, si innamorano della bella Lucy un’affascinante e raffinata donna inglese espulsa ed in cerca di marito per poter rientrare negli Stati Uniti. Lucy, che Salvatore poi chiamerà “luce” stroppiandole involontariamente il nome e rendendo più terrena questa figura di donna elegante ed intelligente, si piega alle dure leggi della sopravvivenza e cerca di legare amicizie e di stringere rapporti con le altre donne restie per mancanza di esperienza ad allacciare qualsiasi tipo di rapporto umano all’infuori di quelli legati alla sopravvivenza. Memorabili infatti risultano le scene relative a questi tentativi in cui l’anziana madre respinge questa donna rea di mangiarsi il figlio con gli occhi. Queste scene mi evocano “il cordone ombelicale” ossia le difficoltà, presenti ancora oggi nelle realtà meridionali, relative alla difficoltà del distacco dal proprio nucleo familiare originario. Salvatore, principale protagonista del film ed occhio dello stesso regista, è un uomo antico, con un forte senso d’identità e di radicamento alla terra capace di provare passioni e di sognare. A proposito di sogni, bellissimi e straordinari l’albero pieno di soldi che piovono in testa al nostro eroe e il bagno nel latte della California, chiaro omaggio al cinema di Fellini. Il viaggio prosegue e fra peripezie varie ecco-ci giunti ad Ellison Island, una antica Lampedusa!, in cui gli immigrati vengono sottoposti a visite mediche e ad umilianti test d’intelligenza. Questi migranti sono spiazzati di fronte all’uomo del nuovo mondo, razionale che produce ricchezza e denaro e costruisce case di cento piani, che condivide le leggi razziste e i matrimoni combinati a distanza. La sopravvivenza si ottiene tutta su questo terreno, cioè nella rapidità con cui l’uomo antico riesce a trasformarsi in nuovo dimostrando di non credere più agli spiriti o ai fantasmi, che non si vedono e dunque non esistono, dunque perdendo la propria ingenuità e naturalezza originaria. Ma Emanuele Crialese è un poeta una “sorta” di visionario, per cui queste condizioni disumane e questo scontro fra queste due realtà (fra mondo antico e quello nuovo) vengono rese mediante l’ingenuità degli occhi di questi personaggi, dunque solo evocati, che vedono case altissime e nebbia. Poetica è anche la storia d’amore rimasta sospesa fra Lucy e Salvatore per tutta la trama del film ma che alla fine si sposano e infine c’è tanta poesia anche nella scena finale in cui tutti i personaggi nuotano nel latte di cui questo nuovo mondo è ricco a tal punto da poter sfamare e nutrire tutti. Coraggiosa inoltre la scelta di recitare in dialetto siciliano e soprattutto di non mostrare mai nemmeno un fotogramma del nuovo mondo. Dunque un film sulle aspettative, gli aneliti, le speranze di questi emigranti italiani di inizio 900 e lo scontro-incontro con questo nuovo mondo: gli Stati Uniti.
by Mariano Lizzadro

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1.10.06

Ironia iconoclastica e alchimia ne “La montagna sacra” di A.Jodorowsky

[pellicole -2]
L’incipit de “La montagna sacra”, il film di Alexandro Jodorowsky girato nel 1973, è un viaggio all’interno del mito e del rito cristiano e delle crudeltà commesse dai conquistadores europei in America Latina. Un uomo vestito di nero, un sacerdote officiante, compie liturgie e riti d’iniziazione esoterica nei confronti di due donne speculari all’interno di un misterioso e non precisato santuario in cui riecheggiano degli antichi mantra. Quest’uomo, che ha un cappello nero, spoglia lava taglia i capelli ed infine abbraccia queste due donne in modo da formare una “sorta” di trittico iniziale. Si vedono in rapida successione simboli mistici ed esoterici. D’improvviso mediante uno scatto o meglio uno stacco l’immagine viene scaraventata verso il basso e assistiamo ad un uomo crocifisso con il volto ricoperto di api. Questo uomo giace in stato di incoscienza e arriva un indios nano e senza braccia che gli pulisce la faccia. Arriva un’orda di bambini rumorosi che lo liberano e successivamente vediamo questo ladro-cristo nuovamente crocifisso ad un albero che viene lapidato da questi bambini. Sopravvissuto anche a quest’altra tortura questo uomo emana un urlo lancinante e tremendo, che per assonanza mi ricorda l’urlo terrificante nel film “L’australiano” di Jerzey Skolimowski, che allontana tutti i presenti tranne il nano deforme. A questo punto il nano deforme offre una canna (sostanze psicotrope) al cristo-ladro ed effettuano questo antico rituale di fumare insieme, fenomeno quasi universale basti pensare alla presenza di questo tipo di rituale in quasi tutte le civiltà. L’incipit e il film procedono e a questo punto ci troviamo catapultati in una cittadina dell’America Latina. Il cristo-ladro e il nano freak deforme si trovano tra una piazza di mercato e le macerie di una chiesa in rovina ad osservare una società militarista e degradata in cui c’è una parata nazista, in cui i soldati portano a mo di effige uno stuolo di agnelli sgozzati e scuoiati, dei ricchi borghesi in ginocchio avanzano in questo corteo e ogni tanto si assiste alla fucilazione di proletari, dai fori provocati dalle pallottole fuoriescono del sangue blu e degli uccelli. Questa scena mi ricorda, evocazione visiva, alcuni quadri di Gorge Grosz ed anche un quadro di Renato Guttuso intitolato “La crocifissione”. L’ironia di Jodorowsky si palesa subito dopo, infatti questa scena ossia questo corteo macabro e surreale, viene ripreso con macchine fotografiche e telecamere da una comitiva di turisti nord americani. Ad un certo punto un turista chiede a cristo-ladro di immortalare in una fotografia la violenza carnale che la sua compagna sta subendo da un soldato. La gravità di questa situazione è resa dissonante dall’atteggiamento divertito di questo turista nord americano. Qua l’ironia e lo sbeffeggio critico sono rivolti alla società statunitense, ed occidentale per estensione, in quanto invischiate con l’ascesa di alcuni regimi dittatoriali durante il ventesimo secolo. Ma l’intento ironico critico risulta maggiormente evidente nelle scene successive: proseguendo a piedi in questo corteo macabro e grottesco, cristo-ladro e il nano freak deforme, si imbattono in un cartello “La conquista del Messico” spettacolo messo in scena dalla compagnia del “Grande circo dei Rospi e dei Camaleonti”. Nei fotogrammi successivi ecco messo in scena lo spettacolo: con sottofondo di musica popolare indios, si vedono iguane e camaleonti in abiti aztechi, poi arrivano tre caravelle di rospi (i conquistadores!) con una musichetta nazista in background, poi lo scontro fra rospi vestiti in abiti da crociata ed in sai da prete e le iguane camaleonti vestiti da aztechi e sangue tanto sangue ed infine questo mini set teatrale esplode. Qua è evidente l’intento di Jodorowsky: mimare ironicamente la storia dell’America Latina e criticare aspramente il ruolo dei paesi conquistatori e colonizzatori. Esploso il set, il cristo-ladro in compagnia del suo fido amico il nano freak deforme proseguono il loro cammino e si imbattono in una chiesa in cui prendono parte ad una via crucis, messa in scena per un turista. Finita la rappresentazione il nano e il ladro partecipano al banchetto insieme ad altri figuranti e finiscono con l’ubriacarsi. Nel frattempo approfittando dello stato di incoscienza di cristo-ladro gli altri figuranti ne fanno il calco. Quindi al risveglio egli si ritrova in un magazzino in mezzo a centinaia di statue che rappresentano la sua stessa immagine. Allora cristo-ladro urla e frantuma tutte queste statue. Qui è chiara l’allusione alla parabola evangelica dei mercanti nel tempio. Subito dopo irrompono in scena dodici suore-prostitute in una cattedrale che uscendo dal sacro edificio si prostituiscono. Una suora-prostituta bambina viene adescata da un vecchio che le offre in pegno il suo occhio vitreo in cambio di una prestazione sessuale. Per strada incontrano il cristo-ladro che porta a mo di via crucis sulle spalle l’ultima statua rimasta non distrutta raffigurante la sua stessa effige. Lo deridono e lo scherniscono tutte, tranne una che gli asciuga il viso e i piedi. E’ chiara l’allusione alla Maddalena e alla sacra sindone. Il viaggio del protagonista prosegue, e noi con lui, fino a giungere in una chiesa in cui alcuni militari ballano in coppia, allora il nostro protagonista entra e vede una bibbia putrida che genera dei vermi e subito dopo scorge in un letto a forma di bara un alto prelato evidentemente addormentatosi, e con lui per estensione molti prelati e tutta la santa madre chiesa, che svegliatosi esce dal letto-bara e blaterando parole in un linguaggio incomprensibile pare proprio voler accusare il ladro-cristo e il nano di eresia e scacciarli da quel luogo sacro. Il ladro-cristo si nutre della faccia della sua immagine statuaria e qui le ipotesi plausibili sono relative al mito dell’uccisione totemica dei figli che si nutrono del corpo del padre di chiara derivazione freudiana oppure il rito cristiano della comunione. Questo intenso incipit termina con la scena dell’ascensione della statua di cristo che appesa a dei palloncini blu e rossi libra nel cielo. Questo incipit potrebbe essere paragonato ai concetti alchimistici di nigredo, di prima materia, di caos o massa confusa, di decomposizione dato che per l’alchimia l’inizio del processo o del procedimento alchemico assume questi nomi. Torniamo al film. Mentre questa folla osserva rapita e silenziosa questa ironica ascensione ecco che la telecamera inquadra una torre rossa e alta che sovrasta tutti gli altri edifici al centro della piazza del mercato. Il cristo-ladro rubato un coltello sale verso la torre appeso ad una corda la cui estremità è un amo d’oro che lo tira verso su dove c’è un buco. Giunto in questo cunicolo vi scende ed arriva davanti ad una membrana bianca che recide col coltello ed entra nella stanza dell’alchimista. Queste immagini rimandano al tema della nascita o forse della rinascita in quanto il rompere, l’attraversare la membrana simboleggia la fuoriuscita dall’utero, la rottura delle acque e della placenta. In ogni caso continuando nella comparazione degli eventi del film con alcuni concetti alchimistici, mi sembra che in questo momento si potrebbe parlare di albedo, di imbianchimento, di lavaggio, di abluzione tutti termini che indicano appunto la seconda fase del processo alchimistico che molto spesso è indicato anche come risalita. Rotta la membrana si trova faccia a faccia con una misteriosa figura: è un alchimista. L’alchimista è vestito tutto di bianco ha un cappello a falde larghe che gli coprono il viso e siede su un trono ai cui lati vi sono due arieti e questa stanza è delimitata da due colonne una bianca e una nera. Chiaramente qua la scelta di Jodorowsky rimanda alle raffigurazioni medioevali dell’alchimia. Nei fotogrammi successivi l’alchimista è rappresentato in compagnia di simboli più mistico-esoterici che non alchimistici: infatti vengono inquadrati un cammello e un’ancella di colore tatuata con scritte ebraiche e sigilli d’argento. Ed ecco-ci al momento della lotta fra l’alchimista e cristo-ladro con immobilizzazione di quest’ultimo da parte dell’alchimista che subito dopo estrae dal collo del prescelto cristo-ladro un anfibio viscido e bluastro. Al risveglio dall’immobilizzazione l’alchimista chiede al prescelto: “vuoi l’oro?” e lui annuisce. Seguono poi alcune scene relative al lavaggio e alla preparazione in ampolla del prescelto, scene queste chiaramente collegate ai concetti alchimistici di preparazione della sostanza, di abluzione, di prima materia. Jodorowsky si dimostra profondo conoscitore e cultore di questi saperi occulti e mistico-esoterici di cui l’alchimia fa parte soprattutto dal punto di vista iconografico. Infatti in rapida successione veniamo rapiti da questa serie d’immagini alchimistico mistico esoteriche: un pellicano, l’ancella di colore che suona un violoncello, specchi, sfere di cristallo all’interno della roccia e una sala con pareti formate dagli arcani delle carte dei tarocchi. Ma ritorniamo al viaggio. Dopo aver assistito alla trasmutazione degli escrementi in oro mediante le fasi alchimistiche classiche l’alchimista svela uno degli arcani più profondi del sapere alchimistico al neofita-prescelto ossia che la vera trasmutazione non consiste nel trasformare la materia in oro bensì mutare se stessi in oro. Concetto questo fondamentale e basilare di tutto il sapere alchimistico. Proseguendo nella trama del film adesso ci troviamo in una stanza con sette manichini ognuno rappresentante di un pianeta, qui si incontrano alchimia zodiaco e astrologia, ed è in questo momento che Jodorowsky abbandona l’iconografia alchemico mistico esoterica per proporci una sua visione ironica grottesca e sarcastica del potere umano anche se attraverso queste immagini comunque legate o collegate allo zodiaco e all’astrologia. In rapida successione assistiamo alla presentazione di questi personaggi ognuno collegato ad un pianeta e che insieme formano un prisma che simboleggia tutto il potere consumistico politico e militare sulla terra. Venere il primo di questi pianeti è rappresentato da Fon che è un industriale di cosmetici e protesi il cui obbiettivo è dare potere all’apparenza e all’edonismo. Marte è rappresentato da Isla proprietaria di fabbriche che producono e vendono armi per qualsiasi moda e conflitto, anche religioso. Klen rappresentante di Giove è un magnate d’arte che sfrutta il sesso e la body-art su scala mondiale. Saturno è incarnato da Sel che condiziona i bambini, mediante dati provenienti da un mega calcolatore antecedente del personal computer, per l’acquisto di giocattoli-arma. Berg collegato a Saturno è un consigliere economico di un presidente-dittatore che elargisce consigli e fra questi anche quello di ammazzare quattro milioni di persone in cinque anni mediante l’istituzione di camere a gas ed università a gas per favorire la ripresa economica. Axon rappresentante di Nettuno, capo della polizia, è un simpatizzante nazi-fascista che promuove il rito della castrazione e conserva sotto alcool i testicoli evirati e che seda nel sangue qualsiasi tentativo di rivolta. Infine si presenta Lut epigono di Plutone architetto fautore di una pianificazione urbana disumana che costruisce mini case individuali a forma di bara. Finite tutte queste presentazioni ecco che con un colpo geniale Jodorowsky fa atterrare sul tetto della torre rossa un elicottero da cui scendono i sette personaggi descritti prima: dunque la finzione diventa realtà! Questi sette personaggi ascoltano gli insegnamenti dell’alchimista relativi alla ricerca dell’immortalità ed anche all’abbandono del proprio ego individuale per compiere l’opus alchemica. Ciò si traduce nel bruciare tutti i soldi e tutti i beni materiali per raggiungere la montagna sacra sede dell’immortalità. In questo caso risultano evidenti gli omaggi alla filosofia gnostica, a quella orientale e buddista in particolare nonché a molte altre tradizioni mistico-religiose, basta pensare ai concetti di rinuncia e di ascesi per esempio. Quindi inizia il viaggio per raggiungere l’isola del loto sede della montagna sacra. Viaggio che è in ogni caso una “sorta” di immersione nella natura per cui i nove uomini (i sette personaggi, il neofita e l’alchimista) si imbattono nelle figure del guaritore, di una donna che prepara intrugli di erbe selvatiche, maestri indios che insegnano ad espandere la coscienza mediante l’uso di droghe, cerimonie purificatrici ed altri scontri-confronti con la natura intesa sia come madre natura che anche come la propria natura. Mentre sono in mare sulla barca che li sta conducendo sull’isola del loto assistiamo al liberarsi del mostro che ha dentro da parte del neofita. Il gruppo lo aiuta ad estrarlo e esce fuori, come un aborto mentale, il nano freak, suo compagno di viaggio iniziale. Invisibile agli altri, il nano viene gettato in mare dal suo reticente "fratello" che si libera con grande dolore dell'anomalo fardello nascosto. Queste immagini indicano sia il concetto di senso di colpa che anche il concetto relativo al confronto con l’ombra. Brevemente, secondo Jung l’ombra è la parte ctonia della personalità con cui bisogna scendere a patti se si vuol diventare individuo, e Jodorowsky che si dimostra anche esperto conoscitore di psicoterapia, ci mostra iconograficamente questo incontro-scontro con l’ombra. Altre purificazioni avvengono, altre tentazioni come quelle del Pantheon consumistico formato da tutti coloro che hanno provato a scalare la montagna sacra ma che non ci sono riusciti. Tre falsi profeti dichiarano di aver raggiunto la meta con i mezzi più disparati: LSD, l'evocazione poetica, il potere di attraversare orizzontalmente la materia solida. I nostri protagonisti riprendono il cammino lasciandosi alle spalle le facili seduzioni del gestore del Pantheon. Intanto il neofita ladro cristo lascia l'impresa, su consiglio dell’Alchimista, e ritorna alla vita ordinaria con una ragazza che, accompagnata da una scimmia, ha seguito la comitiva fin quasi alla vetta della montagna. Realizzeranno la loro vita nell'amore. Gli altri viandanti giungono in vista dei saggi, seduti attorno a un tavolo rotondo. Quando li assaltano si accorgono, che sono nove fantocci, tutti tranne uno, che è proprio l'Alchimista, il quale comincia, fra le risate generali, a fare sberleffi da bambino. Poi, in tono serio, scopre le carte dell'intera messa in scena: "Vi promisi il Grande Segreto e non vi deluderò. Questa è la fine della nostra avventura? No, niente ha fine. Venimmo alla ricerca dell'immortalità per essere dèi, ed ecco-ci qui, mortali, più umani che mai. Se non trovammo l'immortalità almeno trovammo la realtà. Incominciammo in una favola, abbiamo trovato la vita. Ma, questa vita è realtà? No è un film: zoom indietro e l’inquadratura si allarga fino a scoprire l'intero pro filmico: luci, microfoni, troupe del film. E ancora: "Noi non siamo che immagini, sogni, fotografie. Non dobbiamo restare qui, prigionieri. Romperemo l'illusione. Questa è Maya. La vita reale ci attende.". Abbandonata la finzione il gruppo si allontana mentre vecchi mantra risuonano come da principio. Con la rubedo o cauda pavonis si conclude un tipo di procedimento alchemico, una proiezione dei propri contenuti inconsci nel corso dell’opera alchimistica, dichiarando la mia inadeguatezza rispetto alla grandezza di questi argomenti (alchimia, esoterismo, misticismo) concludo in modo differente da come Jodorowsky ironicamente e con una potenza iconoclasta devastante ed oserei dire anche con un grande esempio di meta-cinema termina questo suo monumentale film!
by Mariano Lizzadro

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