25.4.07

Cinema con la "C" maiuscola: l'opera di Andrej Tarkovskij

[pellicole -14]
Come chiedere scusa a quei pochi lettori per essermi arrogato il diritto di parlare di cinema dato che la parola è ben poca cosa rispetto al fotogramma?
Quale miglior modo di terminare un periodo di anni trascorsi a tentare di scrivere di cinema, sul cinema, dentro al cinema se non con alcuni pensieri sul mio regista preferito? Forse sarebbe il caso di tacere dinanzi al genio, ma il vizio della parola anche questa volta non mi abbandona ed allora ecco-li i miei ultimi e ridicoli pensieri sul cinema, sull’opera cinematografica incredibile, straordinaria, visionaria e meravigliosa di Andrej Tarkovskji … buona lettura anzi buona visione.

L’INFANZIA NEGATA
Andrej Tarkovskji figlio del poeta russo Arsenij Tarkovskij, nasce nel 1932 a Zavrazhe, nell’ex Unione Sovietica. Dal 1939 frequenta la scuola statale di Mosca che conclude nel 1951 con un ritardo causato sia dalla guerra che da una malattia. Dopo aver studiato pianoforte pittura e scultura alla scuola d'arte figurativa, nel 1951 si iscrive a scuola di studi orientali, poi a geologia ma è nel 1954 che inizia a studiare all'istituto cinematografico di Mosca dove prenderà la laurea nel 1960 con il cortometraggio "Il rullo compressore e il violino". La principale tematica che attraversa quasi tutti i film di Tarkovskji è il disagio: argomento che deriva dalla sua esperienza personale. Nell'esprimere questa condizione all'interno delle sue opere, Tarkovskji parte dalla figura dell'infanzia con il suo primo lungo metraggio: "L'infanzia di Ivan" del 1962, nel quale racconta la storia di un bambino costretto dalla guerra ad un'infanzia triste, a crescere prima del tempo, sullo sfondo del conflitto fra l’Armata Rossa ed i Nazisti. Il cinema di Tarkovskij è una riflessione sull'individuo, alienato dalla realtà del suo tempo ed immerso nella sua sofferenza.
Il protagonista del film, Ivan, appare sempre serio, di umore diverso da quello dei ragazzini della sua età, ma con ben chiaro nell'animo il sogno di un'infanzia normale, espressa con talento mediante l'uso di immagini rallentate nei sogni del fanciullo, che hanno come oggetto sua madre e l’infanzia negata.
Tarkovskij si ispira ad una novella di Bolomov, dal titolo "Ivan", per dirigere un'opera personalissima in cui vengono raccontate le peripezie di un ragazzo reso orfano dalla guerra e costretto a combattere. Ecco allora che, appena possibile, si addormenta e sogna di essere con la madre, nei luoghi dell'infanzia, a giocare con gli amici, a baciare la ragazza amata. Il dramma di Ivan è reso vivo e vivido nel forte contrasto tra il suo volto, sorridente e luminoso nel sogno, in contrapposizione con quello devastato durante le scene di guerra. “L’infanzia di Ivan” spezza i legami con la tradizione letteraria col melodramma e col patriottismo. La guerra, nel film assume un valore simbolico che va oltre il dato concreto. Non a caso sono completamente assenti scene di scontri bellici. Il dramma è spirituale e la devastazione interiore trova la massima espressione nel volto degli uomini.
Il dodicenne Ivan, che ha perso i genitori durante l’invasione nazista dell’Unione Sovietica diventa un prezioso collaboratore dapprima dei partigiani ed in seguito dell’esercito, impegnandosi in una serie di pericolose missioni esplorative oltre le linee. Rientrato da una missione viene accolto dagli uomini del tenente, che in un primo momento lo sospetta essere una spia nazista. In seguito alle rimostranze del ragazzo, lo mette in contatto con il capitano ed il colonnello ai quali fornisce importanti informazioni sulla dislocazione del nemico. Inviato alla scuola di guerra, Ivan riesce a fuggire e viene raggiunto dal capitano, che decide di portarlo con sé. Tornato al fronte, Ivan scompare durante una sortita. A guerra terminata il tenente scopre che il ragazzo, catturato dai tedeschi, è stato condannato a morte. La drammaticità della guerra è concentrata nella vicenda del piccolo Ivan. Infatti “L’infanzia di Ivan” è un film sulla guerra senza scene di guerra, in cui il carattere allucinatorio del racconto e delle immagini e il modo poco convenzionale di parlare delle brutture che la guerra causa sui bambini sono gli assi portanti. Il tentativo è quello di raccontare la guerra che abita dentro Ivan, situata all’interno della sua storia personale, svelata nei momenti in cui si palesa la voglia di autodistruzione, di annullamento di sé, le cui cause non possono che essere individuate nella guerra e nella perdita dei genitori in guerra. Dunque Ivan è contemporaneamente: bambino – soldato – adulto – anziano – padre – ribelle - comandante - fuggitivo – subalterno. Ed è proprio questo il grande furto operato dalla guerra ed oserei dire da qualsiasi forma di violenza: rubare il tempo, negando il futuro, la crescita. Il tema principale del film diventa dunque il capovolgimento della logica del reale, da una parte l’apparenza di una porta che si apre e che invece si chiude poco prima che venga attraversata, ossia il sogno, dall’altra la violenta ed ingiusta lotta quotidiana per la sopravvivenza, ossia la realtà della guerra. Le visioni oniriche del piccolo Ivan, colme di elementi simbolicamente materni quali ad esempio l’acqua, i frutti della terra non sono altro che piccole parentesi ancora più struggenti al confronto di un risveglio drammatico in un mondo opposto a quello sognato. In genere la guerra viene rappresentata sempre con immagini cruente non nel caso di questo assoluto capolavoro che parla di guerra tramite l’infanzia negata del giovanissimo Ivan

L’ESULE
Nel 1965 è poi la volta di "Andrej Rublev", che racconta la storia di Rublev, famoso pittore di icone russo del 1400. In questo film viene affrontato il tema dell'artista in rapporto al suo tempo ed al disagio che questo provoca. Infatti lo stesso Tarkovskji afferma: "L'artista non è mai libero. Non vi è un'altra categoria di persone che sia meno libera degli artisti. Essi sono incatenati al proprio dono, alla propria predestinazione, che è quella di servire il proprio dono e, con ciò stesso, gli uomini". E' proprio questo concetto che Tarkovskji vuole esprimere all'interno di questo Suo capolavoro. Infatti all'inizio Rublev viene rappresentato come un artista convinto che l'arte sia l'unico fattore che nobilita l'uomo, ma nel corso della sua vita a causa anche dei fatti storici ai quali assiste, fra cui l'invasione della Russia da parte di altre popolazioni dapprima comprende come l'arte sia semplicità, poi cade nell'eccesso opposto ossia nell’allontanamento dai valori, fa poi voto di silenzio per espiare la colpa, fino a quando l'incontro con un fanciullo, figlio di un costruttore di campane, gli permette di raggiungere un equilibrio tra i suoi valori fondamentali e cioè vita, arte e religione. Dunque Rublev è un eroe schivo ed introverso, facile preda di dubbi ed esitazioni ma tenace e voglioso di comunicare e di contribuire al bene dei propri simili. Rublev si rende conto che la vera possibilità di arginare la violenza repressiva dell'autorità si trova in un legame più vero con gli altri e cerca di comunicare questo al popolo, attraverso le proprie opere. In un mondo grigio la luce delle sue icone è un invito ad un atteggiamento più spirituale. Il suggerimento non viene raccolto e l'artista decide di non parlare più, né con la voce né con la propria produzione artistica. Riprenderà a parlare solo alla fine del film, quando il coraggio di un ragazzo compie una “sorta” di miracolo. La campana del villaggio, occupato da un'orda di invasori, si spacca e viene ordinato al fonditore di campane, l'unico a conoscenza della formula che permette all'argilla con cui viene fatta la campana di resistere ai violenti rintocchi, ne costruisca una nuova. Ma costui è morto, portandosi nella tomba il segreto della formula. Molti provano a costruirne una, ma senza successo e ciò indispettisce gli invasori che riprendono a saccheggiare e seviziare la popolazione. Inaspettatamente il figlio del fonditore di campane, dichiara di essere in possesso della formula, confidatagli dal padre prima di morire, ma non intende rivelarla.
Dovrà essere lui a guidare gli operai. Quando l'opera è completata e la popolazione festeggia l'evento, il ragazzo piange disperato perché convinto che la sua formula per la costruzione della campana non funzionerà. Gli si avvicina Rublev e per la prima volta dopo anni riprende a parlare e decide di ritornare a dipingere. Siamo in Russia intorno all'inizio del 1400 davanti a una chiesa, un uomo sta tentando il volo sopra un rudimentale aerostato. Il pallone che lo deve sollevare in aria è costruito con pelli cucite. Un gruppo di persone si avventa contro coloro che stanno collaborando all'impresa, ma le funi che tengono ancorata a terra la navicella sono recise: il pallone s'innalza, suscitando contrastanti emozioni di rabbia e di meraviglia. Dopo avere sorvolato le campagne circostanti per breve tempo, si scuce e precipita nuovamente al suolo. L'estasi di questa “sorta” di volo sciamanico si dissolve. Ed è come la recisione di un cordone ombelicale che lega l'uomo alla terra: la forza di gravità. Tarkovskij sembra voler suggerire che un vincolo occulto di uguale intensità lega lui stesso e per estensione i suoi connazionali alla Madre Russia. Esiste nella storia di questo paese una "coazione a ripetere" il proprio passato sotto la forma di un regime politico di natura dispotica. Come dire che in Russia la storia fa il suo corso transitando con una certa schifosa continuità. Il travaglio artistico e culturale di Andrei Rublev sembra riflettere il percorso di maturazione ideologica di Tarkovskij, e per estensione degli intellettuali del 1900. I due Andrej sarebbero in buona sostanza accomunati dalla medesima aspirazione verso le istanze di un umanesimo in rotta di collisione con il potere costituito. Il film di Tarkovskij è interamente girato in bianco e nero, ad eccezione del finale che offre una panoramica a colori delle opere di Rublev. Dall'inizio alla fine, la pellicola di Tarkovskij si avvale di un linguaggio simbolico peculiare: la campana con la rappresentazione di San Giorgio che sconfigge il drago, ovvero il demonio. San Giorgio è il protettore dei cavalli, e questi ultimi costituiscono un elemento simbolico piuttosto frequente nel cinema di Tarkovskji, che potrebbe essere associato al duplice significato tradizionalmente attribuito loro. Da un lato al mondo infero e dall'altro alle acque celesti, alle fonti e ai fiumi. Infatti all'inizio del film, subito dopo la scena del pallone che precipita al suolo, Tarkovskij introduce l'immagine di un cavallo che si rotola nella prateria, dando l'impressione di staccarsi dalla terra e di nascere da essa, mentre alla fine si assiste alla scena di quattro cavalli che stanno pascolando sotto la pioggia in riva a un fiume. Il cavallo è anche il simbolo dello spirito del popolo russo, della sua ansia di libertà, dell'identità col nomadismo. Andrej Rublev di Tarkovskij offre così la possibilità di rileggere il passato della storia russa che sembra ripetersi anche se in nuove forme. Vecchie e nuove forme di potere politico in cui il ruolo delll’intellettuale è sempre stato quello dell’esule. Un eremita costretto a vagare nei meandri delle sue conoscenze, della sua fantasia che galoppa come i cavalli di questo meraviglioso film

DESCENSUS AVERNO
Nel 1972 esce Solaris, un capolavoro del genere fantascienza, tratto dall'omonimo romanzo di Stanislaw Lem. In un'epoca imprecisata, uno psicologo è inviato dalla commissione scientifica sovietica sulla stazione orbitante attorno al pianeta Solaris. Ha il compito di redigere un rapporto intorno agli strani fenomeni che li si verificano e di cui sono testimoni e vittime i tre scienziati che ancora stazionano la: un fisiologo, un cibernetico ed un fisico. Il pianeta Solaris è un'entità particolare rispetto alle altre scoperte fino ad allora: ha una intelligenza diversa e insondabile. Nel momento in cui, incapaci di altre modalità di relazionarsi, gli scienziati lo hanno bombardato con dei raggi x per avere una qualche reazione, il magma pensante del pianeta ha reagito, provocando in loro crolli nervosi. La crisi vissuta dai singoli individui ha provocato una spaccatura all'interno della stessa comunità scientifica, con la formazione di due gruppi. Il primo gruppo ritiene importante e necessaria la ricerca di un contatto con la superficie pensante del pianeta; il secondo gruppo ritiene questa strada pericolosa e non scientificamente valida. Un astronauta durante un viaggio di ricognizione attorno al pianeta, è stato testimone di alcuni fatti incredibili. La testimonianza che rilascia, anziché fare chiarezza sul mistero che ruota intorno a Solaris, acuisce ancor più la frattura fra i due gruppi. Un gruppo dichiara chiuso il caso, non avendo alcun dubbio sul fatto che l’astronauta è stato preda di allucinazioni, mentre l’altro gruppo è fermamente convinto che l'astronauta è stato testimone del rappresentarsi di una intelligenza diversa. Il compito di decidere sulle sorti del pianeta viene affidato allo psicologo. Giunto sul pianeta egli trova una intelligenza diversa, estranea, che cerca di comunicare con lui attraverso la moglie, morta suicida anni prima. Egli si imbatte nell'ignoto e si trova psicologicamente impreparato ad accoglierlo. Quando mette da parte il proprio ego, si rende conto che, per comunicare col magma pensante, è lui che deve adattarsi ad una forma di vita altra. Stabilita la comunicazione, l'uomo sente pulsare in sé la medesima forza misteriosa che smuove l'immane superficie del pianeta e dalla quale è spinto a rimanere, quasi avvertendo una sua possibile rinascita su questo lontano corpo celeste. Il film si conclude con la stessa inquadratura con cui era iniziato: quella della casa paterna. Lo psicologo torna dal padre anziano con cui era in dissenso e gli si getta ai piedi, ricreando, come in un quadro, la stessa immagine del "Il figliol prodigo" di Rembrandt. La macchina da presa si allontana mostrandoci come tutta la vicenda si stia svolgendo su di un isolotto del pianeta Solaris, forse la mente stessa del protagonista. Tarkovskij crea un altro e nuovo linguaggio con Solaris. In quella grande astronave che ruota sul mare di Solaris, pianeta immerso in un oceano composto di una strana specie di materia in grado di riflettere l’anima. Non quella sublime, ma quella più vera che appartiene ad ognuno di noi, quello che i moderni psicologi chiamano il proprio io profondo. Il pianeta riflette quello che si è, non quello che si desidera essere, riflette la propria condizione morale. Esperienza disgustosa, insopportabile per chiunque, anche solo nei pensieri. Ma ecco-la qua materializzata in mostri immondi, ossessioni e atti mancati, contenuti inconsci o archetipici dotati di vita. Persone non amate, cattiverie e tutti i nostri rimorsi materializzati e dipinti su pellicola. L’unica forma di conforto pare essere per Tarkovskji il destino di abitare la terra. Solo il rimorso purifica in uno stato di quasi follia, dall’uscita dal tempo, sino al ritorno nella stanza dove il padre è tra i libri con il cane, e la pioggia che dietro il vetro bagna, e pulisce tutto. Ecco tutto ciò che forse per Tarkovskji significa abitare il proprio destino. D'altronde per Andrej Tarkovskij il cinema era la forma d’arte che usa il tempo come la sua materia prima. Quello che per la pittura è il colore, per la musica è il suono, per la poesia è la parola, per il cinema è il tempo, lo stesso tempo ed oserei dire lo stesso disagio che inghiotte la persona sensibile che si trova a confronto con se stesso. Dinanzi ad un mondo dominato dalla scienza e dalla tecnologia Tarkovskji rivendica il valore dell’arte come strumento di conoscenza della verità, o addirittura come archetipo stesso della verità. Infatti afferma il nostro cineasta: “Per mezzo dell’arte l’uomo si appropria della realtà attraverso un’esperienza soggettiva. Nella scienza la conoscenza umana del mondo procede lungo i gradini di una scala senza fine, venendo successivamente rimpiazzata da sempre nuove conoscenze su di esso che sovente si confutano a vicenda, in nome di verità oggettive particolari. La scoperta artistica, invece, nasce ogni volta come un’immagine nuova e irripetibile del mondo, come un geroglifico della verità assoluta. Essa si presenta come una rivelazione, come un desiderio appassionato e improvviso di afferrare intuitivamente tutte in una volta le leggi del mondo, la sua bellezza e il suo orrore, la sua umanità e la sua ferocia, la sua infinità e la sua limitatezza. L’artista le esprime creando l’immagine artistica che è uno strumento sui generis per cogliere l’assoluto. Per mezzo dell’immagine si mantiene la percezione dell’infinito dove esso viene espresso attraverso le limitazioni: lo spirituale attraverso il materiale, lo sconfinato grazie ai confini”

RICORDI E SEPARAZIONI
Nel 1975 è la volta de "Lo specchio”, un immenso capolavoro. E' difficile esprimere a parole la grandezza di quest'opera: molto sinteticamente essa riporta le riflessioni del regista sulla sua vita, della quale compie un bilancio valutativo intorno ai quaranta anni. Dunque a prima vista verrebbe da dire: meta-cinema, ma in realtà “Lo specchio” è anche qualcos’altro. La trama del film si snoda intorno alla rappresentazione in parallelo del racconto dell'infanzia del protagonista e di immagini rappresentanti vicende storiche e della vita adulta del regista. Il tema principale potrebbe essere rappresentato dal destino dello stesso regista sia da bambino che da adulto, prima come spettatore, poi come protagonista. In buona sostanza questo film parla di ricordi e di separazioni. Descrivendole con immagini che non hanno una sequenza logica, egli paragona l'immagine della moglie a quella della madre, essenzialmente simili nella personalità, intrecciando questo insieme di ricordi con una poetica delicata, fatta di immagini rallentate e di numerosi primi piani. C’è una “sorta” di lentezza nella vicenda narrata, come se Tarkovskji chiedesse silenzio e concentrazione per una completa immedesimazione nelle vicende del film. Un film dove le molteplici generazioni si riflettono in un gioco di specchi, riproducendo all’infinito la medesima immagine. Lo Specchio potrebbe rappresentare la storia delle generazioni che si succedono nel corso tempo. Una storia personale che si riflette nella storia di un popolo e di una civiltà, la storia di un processo di difficile identificazione e di un “complesso materno”, che caratterizza la storia personale del regista e la storia collettiva di tutto il popolo russo. Nato durante un periodo di malattia del regista, questo capolavoro è caratterizzato da momenti di intensa riflessione sul proprio passato. Il regista vede le proprie vicende esistenziali proiettarsi nel vissuto del figlio, che è come lui costretto a subire le conseguenze della separazione dei genitori e di un’educazione fortemente condizionata dalla componente femminile materna. E’ come se Tarkovskij si abbandonasse ai ricordi della propria infanzia e di sua madre nella casa in campagna, durante lo sfollamento a causa della guerra. Diverse immagini si alternano senza alcuna sequenza logica: l’arrivo del nuovo medico del paese vicino, l’incendio di un fienile, il ritorno del padre dal fronte, il sogno della madre e della casa che sta per crollare. Ridestatosi dai ricordi, il regista chiama la madre al telefono e questa lo informa della morte di una sua cara compagna di lavoro di quand’era giovane. Riaffiora alla memoria un episodio di quando la madre lavorava nella redazione di una casa editrice: una giovane donna si affretta sotto una pioggia torrenziale per raggiungere la tipografia dove ha consegnato le bozze di una pubblicazione che dovrebbe andare in stampa.
La ragazza è affannata ed il suo arrivo in tipografia suscita un certo nervosismo. Si fa consegnare le bozze, le legge. A questo episodio ne succede un altro che ritrae gli esuli politici dalla Spagna. Immagini ricavate dalle riprese documentarie della guerra civile spagnola scorrono insieme ad altre di alcune manifestazioni di entusiasmo popolare, in occasione del lancio di palloni aerostatici in Unione Sovietica. Dopo di che il ricordo si sposta sul proprio figlio: un ragazzo prossimo all’adolescenza. Subito dopo una signora anziana con abiti ottocenteschi, compare nel soggiorno di casa ed il ragazzo è invitato a leggere da un quaderno alcune frasi sottolineate. Ed ancora la telefonata al figlio e un ricordo di guerra visto con gli occhi di ragazzo. Seguono altre immagini di repertorio: il passaggio dell’esercito sovietico attraverso un lago, uomini coperti di fango che sembrano uscire dalla terra, la presa di Berlino da parte dell’armata rossa e le foto del presunto cadavere di Hitler, poi i festeggiamenti per la fine della guerra a Mosca, il fungo della bomba atomica ad Hiroshima e Nagasaki. Tutte immagini che esprimono il punto di vista di Tarkovskji sulla storia però vista anche metaforicamente con gli occhi della Russia. Poi il ricordo doloroso della separazione dalla moglie. Poi il ricordo ritorna alla madre, a quando erano sfollati durante la guerra, e la madre si era venduta un paio di orecchini, per procurarsi da mangiare. Altri ricordi si affollano nella mente: la sorella, la nonna. E di ricordo in ricordo le immagini sfumano su un insieme di alberi al tramonto. Siamo all’epilogo di questo assoluto capolavoro, viaggio nel ricordo e nella separazione sia dello stesso Tarkovskji che anche del popolo russo ma oserei dire di tutta l’umanità.

EPILOGO
Dopo “Lo specchio” seguiranno altri tre capolavori assoluti: “Stalker” del 1979, “Nostalghja” del 1983 ed infine “Sacrificio” del 1986 uscito poco prima della Sua prematura scomparsa avvenuta a Parigi a fine Dicembre del 1986

by Mariano Lizzadro

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12.4.07

“La scrittura miracolosa” di Gabriella Gianfelici

[letteratura -3]
... cacciai la vita/ nell'ultima piega (G. G.)
E’ una poesia intima e verticale che ha un grande potere carismatico quella di Gabriella Gianfelici, perché nasce da un’esperienza di scrittura “miracolosa” che si compie in un silenzio innocente ed elementare, che è più dal grido soffocato, corpo di scambio/ merce e baratto/ corpo di morte / silenzio del freddo.
Ne “L’angolo della vita” il flusso poetico è impetuoso, quasi febbrile e viene dettato da quel respiro che colloca la parola a metà tra oralità e scrittura e che fa della raccolta una bellissima opera dall’impianto teatrale in cui le voci di dentro si incontrano, si scontrano, si riconoscono e si confrontano, quasi a denotare un naufragio che è tutto interiore, fatto di luci e ombre, di inciampi e riprese.
C’è tanto coraggio in questa nuova poesia di Gabriella Gianfelici che non teme di “offrirsi al mondo” e di denudare la parola dal suo guscio, di piegarla, dispiegarla e inclinarla all'andatura e al verso del corpo, quasi a rintracciare e tentare un accordo segreto con esso “Anima/ corpo/ trovatemi/ cercatemi”.
Una scrittura dinamica e in movimento questa di Gabriella, che non cede alla speranza, ma che si gioca tutto in quell’attesa segreta celata nel fondo, nella consapevolezza che prima o poi arriverà la tregua che “scuote e vibra”, “il soffio della vita” e "un sorriso di alba che è L’angolo della vita".
Ho trovato bello questo poemetto, da subito, bello senza riserve, per quel viaggio rischioso, vero e necessario attraverso le pieghe e le sfumature più interiori dell’anima. Una scrittura che lascia una traccia, come una carezza e che si incide e si imprime lungamente nella memoria.

Gabriella Gianfelici è nata a Roma. Si occupa di critica letteraia ed è fondatrice dell’Associzione Culturale “Donna e Poesia”. E’ presente in numerose riviste e antologie. Ha pubblicato Scrivo, ti scrivo, 1990; Come le radici dell’albero, 1999; La notte innocente, 2005.
Sue opere poetiche possono essere lette in rete all’indirizzo
www.chiaradeluca.com
by Maria Pina Ciancio

Gabriella Gianfelici - L’angolo della vita (essere questo silenzio)
Prefazione di Fiorenza Marmille -Postfazione di Francesco De Girolami
Pascal Editrice, 2006

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