28.10.06

Forough Farrokhzad vista da Gina Labriola

[letteratura -2]
Per noi, nel terzo millennio, in Medio Oriente come in Occidente, in Italia come in Iran, chi è, Forough Farrokhzad? La risposta non può essere che una: non ERA, ma E’ un poeta, senza distinzione di patria, di sesso, o di epoca. Forough Farrokhzad è nei versi che parlano del vento che porta via foglie e illusioni, di finestre spalancate e chiuse, in amori dolci e violenti, di dio e del diavolo, di sesso e di apocalisse, di orride profezie e di bambole meccaniche, di bambini, di voglia di vivere e desiderio di morte, di piccole fate e di perle: tutto, in una costante, inquietante contraddizione (…).
Forough era una donna colta, ma le sue immagini, le sue metafore, i suoi ossimori, pur derivando da un’elaborazione raffinata, da una millenaria cultura, sono come DISTILLATI nell’alambicco della memoria, tessuti in un ordito quotidiano, in uno slancio, (tormento, gioia, dolore, rabbia, violenza, sfida, dissacrazione e pentimento) che non ha bisogno di commenti, di note e piè di pagina, e riesce a parlare perfino quando è presentata, oggi, davvero a destra e a manca, anche in raffazzonate pagine di internet, spesso in pessime traduzioni o perfino, come mi è stato riferito (non ho potuto avere conferma) sulle magliette dei fans. Il contenuto, sempre vario, gioioso o drammatico, religioso o blasfemo, sensuale, sentimentale, nostalgico, o rabbioso e dissacratorio, espresso in una forma che è solo sua, in una elegante (apparente) semplicità, nella freschezza delle immagini prese in prestito anche dalla più banale vita quotidiana (il bottone di una scarpa, l’occhio di vetro di una bambola, la tenda, oppure un corpo steso come la rugiada sull’iris del mio corpo… Nessuna parola di traduttore o di professore vale la lettura diretta dei suoi testi che ci è dato presentare in traduzioni. Anche se la traduzione è sempre un tradimento.La lettura dei testi originali ci da un’idea della musicalità dei suoi versi. Avrei detto tutto sul “mitico” personaggio di Forough Farrokhzad. Ma io sono qui, chiamata quale “testimone oculare”, che l’ha conosciuto personalmente.
L’ho incontrata spesso, dal 62, quando arrivai in Iran, fino alla sua morte, nel ’67, in circostanze che presentano inquietanti coincidenze. Non ricordo quando la vidi la prima volta, ma non dovette farmi una grande impressione. Non riesco neppure a stabilire nella memoria se conobbi prima la poetessa, attraverso i testi tradotti con Nadèr Naderpur e la discreta, pudica presentazione VERBALE che ne faceva colui che era stato notoriamente uno dei suoi amanti e dei suoi primi PRESUNTI Pigmalioni. Ne ebbe tanti, Forough, di Pigmalioni, veri o presunti, che si vantarono più tardi di aver creato la sua personalità di poeta e la sua fama. Ognuno delle importanti personalità culturali MASCHILI a cui – dopo la morte di lei – chiesi notizia, mi rispondevano invariabilmente: “ L’ho aiutata io. L’ho fatta io… e poco ci mancava che dicessero: l’ho inventata IO, lei neanche esisterebbe, senza di me”. Potrei farvi dei nomi, ma vi sarò grata se mi crederete sulla parola. La gente superficiale, male informata, o in mala fede, negandole ogni originalità, la identificava con Golestan, il Padre-padrone-pigmalione; ho paragonato la coppia Forough Farrokhzad e Ebrahim Golestan alla coppia Camille Claudel - Auguste Rodin, mutatis mutandis, e in altro contesto; la storia di un’altra donna, un’altra artista, che ebbe un destino diverso, ma altrettanto drammatico. Nadèr mi parlò della poesia di Forough e mi suggerì di tradurla. Delle loro vicende personali ho saputo molti anni dopo solo attraverso il volume di Craig Hillmann che si dilunga sull’argomento, direi con insistenza quasi morbosa.Ma un po’ curiosi lo saremmo un po’ tutti; anche io avrei voluto sapere tante cose della vita di quel non comune “personaggio”, pirandelliano “post litteram” che mi fu dato incontrare, e che rimane tanto più intrigante quanto più è complesso e misterioso.Come ho detto, non ricordo più se conobbi prima la poesia o il poeta, prima i suoi versi, o “il personaggio” in carne e ossa. Era un vero Personaggio, uno di quei Sei che si presentarono a Pirandello e lo costrinsero a scrivere nel 1921 la nota pièce che fu rappresentata in mezzo mondo, e anche a Teheran nel 1963.Fu, forse, in quella occasione che conobbi la prima volta personalmente Forough. Fu chiesto all’Istituto Italiano di Cultura di poter usufruire di una elegante piccola sala che serviva per proiezioni di film, spettacoli teatrali, conferenze o concerti: era di proprietà dell’Ambasciata, ma più o meno a “mezzadria” con la Nunziatura Apostolica. Per ogni manifestazione culturale che l’Istituto doveva svolgervi, bisognava passare per tre tipi di censura. Se si trattava di un concerto, di una conferenza – che so io – su Pompei o su Dante, la cosa andava abbastanza liscia – roba asettica - ma se si tratta di cinema o teatro…ahi! Prima di tutto l’Ambasciata:“Di che roba si tratta? Che figura fa l’Italia? E’ roba di prestigio?” Veniva poi la censura iraniana:“Si parla di politica? Di ribellioni, di rivoluzioni, di democrazia, di Re, di roba del genere? No? E allora passi!“ Si faceva ciò che si poteva, ed era già tanto in un paese tagliato fuori dalla cultura europea, malgrado la RELATIVA apparente apertura dello Shah e i viaggi all’estero dell’intellighentia iraniana. Non dimentichiamo che, malgrado qualche aspetto positivo e i romanzetti dei rotocalchi, l’Iran era sotto un duro regime dittatoriale. La più difficile, la più imprevedibile era la censura della Nunziatura. “Si parla di sesso? E’ immorale?” Ma anche se non si parlava di sesso veniva fuori una certa ruggine, non so che antico rancore tra Stato e Chiesa, e i bastoni tra le ruote venivano sempre dalla segreteria della Nunziatura.E Pirandello? I Sei Personaggi? Con una vera entremetteuse e relativo bordello, e un mezzo incesto annunciato??? Per fortuna nella segreteria della Nunziatura, dove si decideva dei programmi della contesa sala, nessuno aveva ancora letto I Sei Personaggi di Pirandello.“Pirandello? Ma è un premio Nobel… ed era anche accademico d’Italia!” Fu accettato il premio Nobel che era stato anche Accademico d’Italia. Incominciarono le prove, compatibilmente con gli orari e i programmi del prezioso teatrino. Vi si organizzava una corale. Pubblico e cantori erano quasi esclusivamente armeni, molto religiosi e appassionatissimi a musica e canto. Io, passione pirandelliana a parte, assistevo alle prove anche per evitare un possibile incidente diplomatico qualora qualcuno dei bigottissimi cantori avesse incontrato Madama Pace col parrucchino fiammeggiante e la faccia in tecnicolor. Fu probabilmente nel conteso teatrino, alle prove per la pièce di Pirandello, che incontrai Forough: una ragazza né alta né bassa, né bella né brutta, piuttosto legnosa e scostante, ma forse solo per discrezione o timidezza. Per tutto il tempo delle prove (un mese? due?) non mi rivolse la parola, rispondeva appena al mio saluto. La regista era Pari Saberi, una signora bella, elegante, gentile, con una certa sufficienza. La “madre” era Shallàh, l’ex moglie di Naderpour, bellissima, a cui non piaceva troppo rappresentare una vedova avvilita. Il figlio era Firouz Behnàm, un mio affezionato e carissimo allievo. E la Figliastra? Era naturalmente Forough! Mi chiedevo, e mi chiedo ancora: “Come ha fatto Luigi Pirandello, siculo, a scrivere, nel 1921, una pièce per un’attrice persiana, che non era ancora nata?". Forough, nata a Teheran nel 1935 aveva un anno quando morì Pirandello, nel 1936. In nessun palcoscenico dove ho incontrato i Sei Personaggi, in Francia, in Italia, nel Nord, nel Sud, nessuna “figliastra” fu mai così VERA come Forough Farrokhzad. Rivedo la sua rabbia, quando tendeva le braccia nude e nodose (e pelose), contro il Padrigno, sento le sue urla… Ma chi era per lei il “Padre”, o piuttosto il padrigno contro il quale scatenava quella sua rabbia? Era il suo, il Padre naturale, il militare burbero e severo? Era il marito da cui era fuggita, abbandonando il figlioletto? Era lo Shah Palhavì? Era Golestàn, l’amante amato con ardore, forse con riconoscenza, frustrazione e sottomissione, rabbia e odio? Già: Golestàn, il patron, il Padre-Padrone-Pigmalione: era lì, sempre lì, assisteva alle prove, discutendo talvolta animatamente con Madame Saberì. E Forough ascoltava, sottomessa, dimessa, talvolta batteva i denti, per il freddo o piuttosto per l’emozione, dopo che aveva provato una scena particolarmente violenta.Golestan indossava un pustìn. Era un bell’uomo, doveva avere sui 45 anni, robusto, imponente. Il pustìn era un pellicciotto di montone rovesciato, ricamato, con la lana all’interno, elegante, ma con un tipico odore di pecora che non scompariva neanche dopo anni. Imponente, Golestàn, specialmente con il pustìn, aveva l’aria di un orso… no, piuttosto di un arcaico re-pastore.Ibrahim Golestàn, dunque, era il co-direttore della troupe, co-regista della pièce. Autoritario, ma mi sembrava di capire (nel ’63 sapevo poco il persiano) molto competente. Ebrahim Golestàn era gentile, cordiale, con un’eleganza venata di umorismo. Durante le pause, accettava da me un wisky o un caffè che portavo in un termos, mentre Forough, la Figliastra, se ne stava in un canto con i capelli sugli occhi, e continuava a rodersi in quell’odio che la divorava, stringendosi continuamente la cintura del vestito, come se volesse segarsi in due. Era un suo tic, come quello di velarsi la faccia con i capelli. I capelli sono un leit-motiv della sua poesia.Ebbi un ruolo anch’io: dovetti fabbricare in fretta e furia un cappello da vedova. La costumista persiana aveva presentato un turbante civettuolo, tutto pennacchietti e nastrini. Pescai una foto della rappresentazione dell’opera, tinsi di nero un mio cappellino di feltro e lo coprii con un pezzo di un vecchio ciadòr nero – velato - cedutomi dalla mia cameriera che se ne era servita come zanzariera. Shallàh velata, bellissima e sexy era poco credibile. Forough figliastra vendicativa e rabbiosa? Ma quale tenerezza quando si rivolgeva alla sorellina! Quella bambina che Pirandello destina a morire annegata nella vasca proprio come “il piccolo Alì” in una bellissima lunga composizione della poetessa. Be Alì goft madarash ruzì: Ad Alì disse un giorno la mamma: Un bambino, Alì, è sul bordo della vasca, hose (quante ce n’erano, nei giardini persiani, di pericolose piscine!); un pesciolino d’argento lo invita a raggiungerlo, con lusinghe e promesse, Alì cade nell’acqua e annega, seguendo un misterioso miraggio. Amava i bambini, Forough. Amava la Rosetta pirandelliana, amava il piccolo Alì, amava disperatamente il suo Kamiàr, abbandonato quando era piccino. Volle sostituirlo – forse – con un bimbo figlio di lebbrosi che conobbe nella “Casa nera” e che adottò. Un gesto “plateale”, dissero. Il bisogno di una platea – che può riempire un vuoto – non è in contraddizione con la sincerità del sentimento. Nella poesia "Il diavolo della sera" lei, la madre, ha sulle ginocchia il suo bambino e cerca di rassicurarlo:Il diavolo della sera…: con duecento occhi, fuoco e sangue, spia dalla finestra…/Gli grido “Vattene!” Ci sono qua io, sveglia, non puoi portarmi via il mio bambino!. Ma il diavolo della sera mi risponde:” Basta! Non ho paura di te! Il tuo grembo è ruggine di peccato…Io sono un demonio, tu sei più demonio di me” Muore il grido, nel fuoco del dolore, fonde come ferro il mio cuore, e grido:”Camì, Camì! Togli la testa dal mio grembo!”
Poetessa? Attrice? Madre disperata, chi era, Forough Farrokhzad? Quando la conobbi, viva e reale, in carne ed ossa, con le sue umane contraddizioni, non ancora mitizzata, non ancora simbolo, trasformata in ICONA, stampata sulle magliette dei fans?Una creatura umana destinata a diventare un mito, un’ICONA, dovrebbe avere un segno speciale…che so io, una stella sulla fronte, o emanare un profumo particolare.. Se così fosse, se Forough avesse avuto un “SEGNO” della sua mitizzazione futura (una stella in fronte, un profumo speciale…), avrei cercato – allora – tanti anni fa - di fare più attenzione alla sua persona reale, parlarle, spingerla a parlarmi, fotografarla,… anche se di fotografie ce n’erano in giro tante, in tutte le pose… Tante foto (quasi mai sorridenti), segno che un certo narcisismo la nostra rabbiosa “Figliastra” doveva averlo, segno che il Signor Golestan, cineasta e fotografo raffinato, aveva nella rabbiosa “Figliastra” una validissima Ninfa Egeria, tanto da trasformarla in una fascinosa Diva, attraverso un numero infinito di immagini fotografiche. E allora non c’era la digitale! Famosa, sì, quando la conobbi, ma non più di molte altre giovani o meno giovani donne che si affermavano nel campo delle arti. Potrei farvi molti nomi di donne celebri allora, note ancora oggi tra gli esuli persiani a Parigi. Dunque: poetessa? Attrice? Madre delusa o colpevole? O cineasta sensibile e raffinata? Nel documentario La casa è nera (Khanè siàh ast) riesce a rendere poetica (con i suoi testi e la sua voce) uno degli aspetti più terribili della malattia e della miseria. In Fuoco (Atesh) un incendio nella zona petrolifera diventa un tema da Apocalisse. Il documentario è di Golestàn, ma non sappiamo quanta parte vi avesse la sua aiutante, la sua versatile, intelligente Egeria, che così drammaticamente ebbe nei suoi versi il senso dell’Apocalisse. Poetessa? Attrice? Madre disperata, cineasta abile e sensibile, o polemista rabbiosa e aggressiva? Forough confondeva i ruoli, e continuava ad essere Figliastra vendicativa, anche alle conferenze all’Istituto Italiano di Cultura, e continuava a vedere un Padrigno e Padrone anche in un professore bonario e grassoccio che raccontava di datazioni su tombe rinvenute, di anfore, scheletri e cocci…Dovevamo gestire, far conoscere la nostra cultura passando, come ho detto, attraverso tre tipi di censura, alle quali si aggiungeva una quarta importante esigenza. L’Istituto italiano di Cultura, oltre che dal MAE, dipendeva anche dall’’IsMEO (Istituto italiano per il Medio e Estremo Oriente. Fondatore e Presidente era il famoso orientalista, archeologo, sinologo, esploratore Giuseppe Tucci, mio patron per 11 anni, temuto e amato maestro e amico). L’IsMEO organizzava e gestiva un’ imponente campagna di scavi nel Sistan e un ancora più imponente lavoro di restauro, a Isfahan soprattutto, ma anche a Shiràz e Persepolis (restauri di affreschi, ma anche il marmo e la pietra). Era comprensibile che si chiedesse a specialisti iraniani (storici, insegnanti, critici d’arte) una collaborazione culturale, con lezioni, conferenze e dibattiti sui siti degli scavi o sui monumenti affidati per il restauro ai nostri specialisti. Sì, però… Era invitato spesso un vecchio signore bonario, un erudito di grande finezza, che aveva anche il merito di aver trasformato la sua antica bellissima casa in un vero museo destinato, alla sua morte, allo stato. Un uomo del regime? Non parlava di politica ma illustrava pietre, anfore, scheletri, cocci, un po’ da erudito, un po’ da innamorato (delle pietre). Sì, però… Pietre, anfore, scheletri, cocci, antichi reperti? Sì, però davano esca al delirio dinastico di Reza Pahlavì che si inventava una discendenza dai re Achemenidi e si preparava a festeggiare con ostriche e caviale, vodka e champagne i 2500 anni dell’impero iraniano, in compagnia dei super-super potentissimi del pianeta, tra i suoi “predecessori” gli Shah-in-Shah, i Re dei Re di Persepolis, i suoi predecessori che lo guardavano con i loro occhi di pietra, impassibili, dall’alto dei millenni (Ciro, Dario, Serse, Cambise…) Forough era sempre presente in un gruppetto di scalmanati per cui il vecchio professore bonario e grassoccio era solo una “cariatide”, uno zimbello, oggetto delle più feroci aggressioni verbali. Mentre il conferenziere mostrava un’innocente diapositiva di un vaso o una pietra, si scatenava un turbolento disordine. “Maraze ghand mighirim: Ci fate venire il diabete!!!” qualcuno gridò, una volta, dal fondo della sala. Era Forough? Non posso dirlo. Certamente lei era lì, forse suggeriva, certo approvava. Le storie raccontate dalle pietre, da una coppa strappata al tempo e alla sabbia, erano sdolcinatezze ridicole, che facevano venire “il diabete”, maraze ghand, la “malattia dello zucchero”. Era un pretesto per aggredire chi in qualche modo facesse parte del mondo accademico, in un certo senso ufficiale, che per gli scalmanati si identificava, quindi, con il regime. Forough continuava a recitare una parte, continuava ad essere la “Figliastra” umiliata e offesa tendendo minacciose le braccia nude, nodose e pelose, in costante atteggiamento provocatorio? A vederla arrivare nelle manifestazioni ufficali si tratteneva il respiro… Vivevo anche io la mia storia, che divenne poesia – buona o meno buona non posso dirlo io, divenne favola; vivevo un periodo di esperienze ricchissime e di incontri interessanti, ma tutto era sofferto, tutto costava fatica, tutto, in qualche modo, si scontava, si pagava. Undici anni. Avevamo portato in Iran il nostro bambino di un anno. Altri due videro la luce a Teheran, aprirono gli occhi su quel cielo abbagliante. Tutti e tre ne furono incantati, ammaliati per sempre.Forough non conosceva sfumature, tranne che nei suoi mirabili versi… Facevo parte del “mondo ufficiale”, non le ero simpatica, non aveva niente da dirmi, e semplicemente mi ignorava. Del resto, aveva lo stesso atteggiamento nell’intervista qui stasera ascoltata: “La mia vita? Come tutte le vite: una data di nascita, un luogo, un matrimonio… La mia poesia? Non ho finito, devo ancora lavorare e non ho niente da dire!” Poetessa? Attrice? Madre delusa e tormentata? Cineasta? Agguerrita polemista? O povero pulcino smarrito, letteralmente bagnato, inzuppato, in un diluvio non metaforico? Così è, se vi pare… Chi era veramente Forough Farrokhzad? Uno, nessuno e centomila. Una sera Ebrahim Golestàn era ospite a casa mia, al terzo piano dell’Istituto (casa e bottega), quando, verso la fine della cena, sentii suonare al cancello del giardinetto. Al citofono una voce strozzata, quasi un singhiozzo: “Sono Forough!” Molte cose ho dimenticato, ma non quella voce, quella sera! Era una sera da tregenda, tuoni e fulmini e soprattutto pioggia e grandine. Rara, in un clima asciutto come quello di Teheran; quando la pioggia veniva giù, spesso improvvisa, sembrava che il cielo si spalancasse e volesse distruggere, ingoiare ogni cosa. I giùb , i rigagnoli che scorrevano (e scorrono ancora, mi dicono) lungo quasi tutte le strade di Teheran, diventavano torrenti, allagavano il selciato e penetravano nelle case.Forough salì, a casa mia. Grondava, i capelli erano rivoli d’acqua; scivolava sulle scarpe, dai tacchi ormai liquefatti, tutte inzuppate. Un vero pulcino bagnato, spaventato, perso… e Golestan la sgridò. Non capii che cosa le disse: c’era stato tra loro un malinteso? Lei lo aveva cercato o seguito in casa mia, dove non era stata invitata, probabilmente per ragioni di opportunità diplomatica.Quella sera la celebre poetessa, la feroce polemista grondava acqua. Davanti al “padre patrigno padrone pigmalione”, sembrava una scolaretta colta in flagrante. La poesia era liquefatta, inzuppava i miei tappeti che, persiani com’erano, non temevano nulla, abituati a tutte le tempeste, le piogge, i ruvidi lavaggi, i calpestamenti dei piedi. Le porsi un asciugamano, le proposi un vestito asciutto, l’invitai a cambiarsi. Chi aveva visto prima di allora una Erinni con asciugamano? Rifiutava, sempre con quell’aria scontrosa che le affiorava sul volto tra il ruscellare dei capelli. Accettò, infine, di asciugarsi e cambiarsi. Scelse, quasi senza guardare, tra i miei modesti vestiti… (non, non sono mai stata una signora elegante) un vestituccio a righe. Avevamo più o meno la stessa taglia, ma il vestituccio era uno dei miei pre-mamàn... Le stava largo, ma lei raccolse da terra la sua cintura bagnata e se la strinse intorno alla vita, stringendo, stringendo come se volesse segarsi in due… (come ho detto, avevo osservato già altre volte il tic di stringersi la cintura). Si strizzò i capelli attorcigliandoli, era una Erinni che usciva dalle onde, e i serpenti erano flosci… sembravano ciocche di capelli bagnati. Passò qualche mese.Ero di nuovo nel teatrino, per assistere alla proiezione di un film. No, purtroppo non ricordo di quale film si trattasse. Sibilò una notizia, strisciante, inquietante. Questo lo ricordo perfettamente: “Forough ha avuto un incidente…dopo una lite con lui… ancora una lite… è ferita… è morta. Forough è morta. Veniva all’Istituto. Veniva per vedere un film italiano”. Voleva assistere alla proiezione di un film, ma voleva anche “restituire qualcosa, all’Istituto.” Due settimane dopo nacque il mio terzo bambino, Valerio. Il vestituccio a righe, pre-maman, non mi serviva più. Forough era morta, e voleva venire a “restituire qualcosa”. Pensai che quel “qualcosa” fosse il mio vestituccio a righe, pre-maman…null’altro aveva mai preso in prestito, all’Istituto. Fakri Golestan, la moglie di Ebrahim, si occupò di tutte le penose faccende pratiche che porta con sè la morte, specialmente una morte tragica e improvvisa. Più tardi creò una Fondazione nel nome di Forough Farrokhzad.Ma chi era Fakri Golestan? Quante cose si son dette, quante se ne potrebbero dire, sulla sorte di due donne rivali. L’amore di un uomo le divideva, o le univa? Alcuni anni dopo le chiesi, con un secondo fine forse fin troppo evidente:“Mi occupo di traduzioni. Lei… chi mi suggerirebbe, tra i poeti persiani contemporanei?”E allora comparve sul volto della dolce, cortese Fakri, una smorfia che somigliava al ghigno della pirandelliana “Figliastra”. “Non ci sono poeti persiani. Uno ce n’era. UNA. ED E’ MORTA”. Per Fakri Golestan, il “solo ” poeta degno di essere ricordato era la sua rivale! E’ morta la “Figliastra” rabbiosa, è morta la polemista aggressiva, è morta la Erinni, la Gorgone dai serpenti afflosciati, è morto il povero pulcino bagnato e spaventato, portandosi dietro il mio vestituccio a righe, ma IL POETA è vivo, il poeta è con noi con tutte le sue contraddizioni; la sua rabbia è sublimata nei suoi versi, una rabbia poetica che non bruciava per umane banali circostanze, ma era predizione di cosmiche apocalissi. Spalancate le sue finestre nel buio della notte, solo la voce resta… e il vento ci porterà via. Religiosa e blasfema, mistica e sensuale, il sesso (ardito sì, ma senza oscenità, sempre con l’eleganza della vera poesia) è il rituale di una nuova religiosità che non esclude il senso di colpa. Le spalle di un maschio sono il mohre namàz il “sigillo di preghiera” la pietra sacra su cui il credente appoggia la fronte nelle genuflessioni. (Ahi, quale problema per il traduttore!). Sulle tue spalle, rocce di granito dure e superbe, /cascata di luce, ruscella l’onda dei miei capelli./ Sulle tue spalle/ muro di cinta di un mirifico castello/ danzano come rami del salice/ le ciocche dei miei capelli./ Le tue spalle nella rfirazione del sole/ sotto le gocce lucenti e tiepide di sudore/ sfavillano come cime di montagne./ Le tue spalle, sigillo di preghiera,/le tue spalle, Mecca dei miei sguardi appassionati. Ma il “diavolo della sera” minaccia la madre dal “grembo pregno di colpe, ruggine di peccato”. La donna ardita, ribelle, madre che si dispera e si colpevolizza e si accusa, si trasforma in una bambola meccanica, che guarda il mondo con due occhi di vetro. La piccola fata che muore e rinasce in un bacio si trasforma nella ribelle che vuole “capovolgere l’Universo” e “ far liquefare la moneta del sole nel forno delle tenebre”. Un senso della disfatta, dell’Apocalisse, della profezia, serpeggiava a quel tempo tra i poeti. Naderpur scriveva Dal cielo alla corda (Dar asseman to rissman) ” E seccato il piracanto e l’alchimia del tempo ha tramutato il fuoco della profezia in oro e sangue…gli uccelli non sono più di carne, sono di terrore e di acciaio…” Nei Versetti terrestri Forough scriveva: Allora il sole si raffreddò, la grazia della fertilità fuggì dalla terra…sconfitta la mirifica forza della profezia…Forough: Erinni, Sibilla, o Cassandra, prevede un capovolgimento nel suo paese, e VEDE la propria morte e tutto quello che sarebbe accaduto DOPO “Sconosciuti verranno a frugare toccheranno i miei libri e i miei quaderni… un estraneo verrà dopo di me col mio ricordo. Sullo specchio l’impronta della mano, un capello, un pettine. ”Siamo noi quell”estraneo sconosciuto” che fruga nelle sue carte e nella sua vita ma solo per capire il mistero del suo fascino, solo per vedere la DONNA attraverso il mito, la fragile creatura nella sofferenza e nelle contraddizioni che danno vita alla sua poesia. Chi era Forough Farrokhzad? Era un poeta. Solamente un poeta.

(relazione tenuta all'Università di Perugia, 24 ottobre 2006)
by Gina Labriola

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