19.12.06

Il senso del tempo e della storia ne' "L'arca russa" di Alexander Sokurov.

[Pellicole -8]
(al mio caro amico Mauro Savino)
"Questo film è una fantasia. Parla di qualcosa che non è mai accaduto ma che avremmo desiderato che accadesse. Sono stanco del montaggio. Non voglio fare esperimenti con il tempo. Voglio portare sullo schermo il tempo reale. Non bisogna avere paura dello scorrere del tempo" (Alexander Sokurov).
In questa citazione, che è anche una dichiarazione di poetica, c’è condensata tutta la storia dell’Arca russa, film del 2003 del regista e cineasta Alexander Sokurov.
Un film molto bello, a mulinello e pieno di nebbia che con un unico, straniante piano sequenza proietta noi spettatori all’interno d’un mondo passato: secoli di storia rappresentati attraverso l’arte. "L’arca russa" è il museo Hermitage di San Pietroburgo, dove un regista contemporaneo e un diplomatico francese dell’Ottocento compiono un viaggio attraverso il tempo, incontrando dentro stanze e corridoi, personaggi famosi, fra balli e fasti di corte e segni di un’imminente tragedia. "L’arca russa" a metà tra un dipinto e un romanzo, è un film di mille personaggi, mille comparse che si aggirano nelle sfarzose e meravigliose sale dell’Hermitage di San Pietroburgo. In un’ora e quaranta c’è condensata la storia russa degli ultimi tre secoli. Fra un dipinto e una statua prendono vita Pietro il Grande, Caterina II ed alcuni zar.
Da una sala all’altra approdiamo a un ballo affollato e travolgente fino ad arrivare al gran finale: siamo nel 1913 e l’esodo dei fantasmi dal palazzo diventa una imponente metafora dell’uscita dalla storia. Nel suo aspetto di grande sogno il film si apre con un’immagine nera resa viva da una voce fuori campo, attrice principale e invisibile del film, che dice: “Apro gli occhi e non vedo niente. Nessuna finestra, nessuna porta. Ricordo che è accaduta una disgrazia e tutti si mettevano in salvo come potevano”.
Poi come per magia, in un’atmosfera onirica, ci troviamo dentro l’Hermitage.
A condurci in questo viaggio sono due personaggi: il primo, un uomo contemporaneo, presente solo attraverso la voce che parla e dialoga col secondo personaggio, un marchese dell’Ottocento, anche lui catapultato in una epoca non sua. Sembrano Virgilio e Dante nel ventre della storia russa, che stanno facendo un viaggio, e noi con loro, attraverso le epoche entrando in contatto con tutte le figure e gli accadimenti più importanti della storia russa. Pietro il Grande e Caterina II, con la famiglia dello Zar e con il direttore d’orchestra Valery Gergiev. Ogni stanza un’epoca, un evento e soprattutto una galleria di opere d’arte sublimi e meravigliose. La telecamera ondeggia morbida di sala in sala, indugia sui quadri e con essi coincide, immagine su immagine. L’Arca russa di Sokurov è un film elogio dell’arte ma anche una critica della storia. Infatti eventi umani, si susseguono in un continum fatto di crudeltà e armonia, di sangue e poesia. Come se l’uomo fosse la materia della storia e l’artista una sorta di tramite che riesce a far vedere quello che c’è ma non si percepisce. Il marchese, che sposa il punto di vista dell’occidentale europeo contro il regista russo e contemporaneo. "L’arca russa" è anche una metafora della storia umana scandita dalla violenza a cui il regista però si oppone, infatti ad un certo punto, vedendo dei soldati, dice: “Mi piace lo splendore delle divise ma non mi piacciono i militari”. Dunque due compagni di viaggio: un regista invisibile e un diplomatico francese dell’ Ottocento e il loro viaggio nel tempo, mentre discutono del loro rapporto con la Russia e del rapporto di questo Paese con il proprio passato e con l’Europa contemporanea. Alla fine, dopo lo sfollamento in massa dal ballo, le nebbie sull’acqua della Neva e le parole sospirate dell’autore: “Tutti conoscono il futuro, ma nessuno conosce il passato. Siamo destinati a navigare eternamente, a vivere eternamente”. In effetti questo film sembra un mosaico i cui vari pezzi compongono un disegno sull’identità storica russa. Un mosaico in forma di percorso vissuto attraverso gli occhi del regista, nello splendido scenario del Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo, fra le opere di Rembrandt, Leonardo, Raffaello, Tintoretto, El Greco e di molti altri, ammirate da visitatori del passato e contemporanei. Il museo diventa emblema della memoria russa, deposito e depositario di una cultura dimenticata, sopravvissuta a tutti i transiti della storia. Il film è incentrato sul confronto tra il personaggio francese, che interpreta opere d’arte e vicende storiche con gli occhi dell’occidente, e questa voce – emblema del regista russo in un continuo confronto ironico e critico. La storia russa viene raccontata a passo di danza, i cui ballerini sono di volta in volta Pietro il Grande e Caterina II, Puskin, gli zar nell’imminenza della rivoluzione d’ottobre e le migliaia di comparse del film. Gli intrusi siamo noi spettatori del film. D’un tratto, il diplomatico francese apre una porta, “non entri lì dentro” avverte vanamente la voce – il regista: appare una stanza povera e disadorna, zeppa di bare accatastate in maniera disordinata, che rappresenta l’assedio nazista e forse anche la violenza dello stalinismo. Le immagini sono un continuo scivolare, nascondere e svelare, in cui lo spettatore diventa protagonista e osservatore di tutte queste vicende. "L’Arca russa" è dunque proprio l’Hermitage, un luogo stabile ma che ci trasporta, come in un viaggio dantesco, verso gli inferi della storia, in cui Virgilio diventa proprio la telecamera per cui questo film è anche una metafora del cinema come strumento di conoscenza. Il diplomatico ottocentesco rappresenta una sorta di Dante moderno. I corridoi, le scale, i saloni dello splendido edificio diventano teatro della storia in cui un occhio inquieto passa dal buio e dall’oblio ed inizia un viaggio nella storia. Luogo in cui il museo metafora del passato e il teatro metafora del presente si incontrano, "l’Arca russa" raccoglie i cocci di trecento anni di storia russa, memoria della deriva di un mondo passato. Canto mesto e tuttavia dolcissimo nel suo struggimento per un qualcosa che non c’è più, un qualcosa che è divenuto immagine e dunque affidato al cinema. Dunque un film dallo stile elegiaco che canta la bellezza delle cose e ne intona una nenia funebre per la loro irrimediabile perdita. "L’arca russa" con l’Hermitage, come Shining con l’Overlook Hotel o come Solaris con la base orbitante, diventa un’allegoria del cinema come predominio delle immagini a cui noi apparteniamo come esseri vedenti, in quanto spettatori mnemonici, un film-viaggio nella storia, che si dona all’immortalità dei capolavori che entrano di diritto nella storia del cinema.
by Mariano Lizzadro

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