31.12.06

Nói Albinói di Dagur Kári: il miraggio tropicale di una mosca bianca

[pellicole -9]
In uno sperduto villaggio islandese, vive assieme alla nonna il diciassettenne Nói. La sua quotidianità è connotata da un’insofferenza crescente. Le situazioni a scuola ne sono sintomatiche: lascia in bianco il compito di matematica senza dedicargli la minima attenzione, dorme durante la lezione di francese e si fa sostituire da un registratore portatile, guadagnandosi così l’espulsione, che sarebbe una liberazione, se non fosse per il dispiacere che arreca al padre, tassista dai talenti sprecati che talvolta esagera nel bere. Nell’inerzia circostante, è il sentimento per Iris, fiore della ghiacciata radura islandese, ad attivare il desiderio di fuga, destinazione Hawaii. Fallito grottescamente un tentativo di rapina in banca, dove viene redarguito come un moccioso, Nói preleva tutti i soldi dal suo conto, compra un vestito elegante, ruba un’automobile e giunge al cospetto della spasimata. Omnia vincit amor? Questa volta no. Già maltrattata dalla grande città, Iris decide di rimanere. Al ragazzo non resta che continuare a fuggire, per essere subito acciuffato dalla polizia. Nói l’albino ha desiderato l’amore e una nuova vita in un paese lontano. Si ritroverà, dopo una repentina catastrofe, più solo che mai.
Figura e sfondo
Appiattire le mie immagini (come con un ferro da stiro) senza attenuarle.
Bresson, “Note sul cinematografo”

Premiato a Rotterdam e Angers, Nói Albinói è il primo lungometraggio di Dagur Kári (classe 1973), anche autore della sceneggiatura e della colonna sonora con gli Slowblow, band in cui suona chitarra, piano, basso elettrico, organo armonico, banjo e xilofono. Nel 1999, ha diretto il mediometraggio Lost Weekend, anch’esso trionfante in diversi festival internazionali (Brest, Monaco, Angers, Poitiers, Tel Aviv). Attualmente (dicembre 2003), Dagur Kári è impegnato a Copenaghen nella lavorazione di un film Dogma, marchio che, sempre più distante dagli specchietti per le allodole della provocazione e della verosimiglianza, raccoglie opere che si sforzano di restituire una visione più diretta ed esacerbata delle realtà che inscenano.

Nói Albinói nasce da un progetto consolidatosi negli anni. L’idea originaria di ambientare il film a Reykjavik fu accantonata perché la capitale appariva “troppo legata alla realtà”. Così Kári optò per Bolungarvik, piccolo villaggio della costa islandese nordoccidentale, chiuso tra il mare e un ghiacciaio, popolato da poco meno di mille anime. Qui sarebbe stato possibile creare un universo che, pur non esistendo, “sarebbe potuto esistere”, a metà strada tra il conosciuto e una dimensione surreale. In effetti, la Bolungarvik di Kári è una provincia dell’uomo fuori dal tempo. Gettato in questa gelata letargica prigione, in mezzo a un’umanità anchilosata, per ritrovarsi Nói deve tapparsi nella cantina sotto l’impiantito, minuscolo loculo divenuto il suo rifugio, dov’è libero di pensare e sognare le Hawaii. Il suo disagio è a fior di pelle. Sebbene si rifiuti di porgere la caviglia alle morse dell’autorità, chiunque la incarni, la sua silenziosa rivolta non si lascia incasellare nell’usurato cliché dell’adolescente ribelle. Al regista non interessa fare un bilancio sulle ragioni dell’attrito generazionale, né smantellare la psicologia del protagonista, che resta sfuggente. Niente sappiamo del suo passato. La madre è morta? andata via? quali ripercussioni ha avuto questa assenza? I tentativi definitori degli altri personaggi gli scivolano addosso. Anche l’etichetta di genio ribelle gli si scuce presto di dosso: non ha alcun seguito la dimostrazione, attraverso un test, di avere un quoziente intellettivo superiore alla media. Con un sorriso sarcastico risponde al padre che gli prospetta la possibilità di accedere, grazie alla puntualità, nel ‘tempio della disciplina’, e con una risata vanifica la propria proiezione in un futuro dabbene, nelle vesti di avvocato. Le inceppate dinamiche comunicative tra Nói e gli altri personaggi sono esponenziali di un’impasse senza evoluzione, di una slabbratura non componibile. Ancor prima, lo scollamento di Nói è reso sensibile da una soluzione di ordine formale: isolata in uno spazio il cui vuoto è mitigato da pochi elementi scenografici, la figura scivola e si arresta a ridosso di uno sfondo immoto, sia esso una natura anestetizzata dalla neve, un atlante geografico illuminato, la carta da parati a fantasia tropicale o gli animali imbalsamati del museo zoologico, innanzi ai quali le sagome in controluce di Nói e Iris si uniscono nel loro primo bacio. Il contrasto è netto. Nulla accade in profondità. Il ragazzo fa esplodere le stalattiti con la carabina della nonna, spara contro lo sfondo, quasi volesse aizzarlo, sfidarne l’imperturbabilità... Se qualcosa ne addolcisce la monocromia, come un arcobaleno, si tratta di un lirico e illusorio memento di colori e sfumature negate a un quotidiano che ha il lucore del piombo.
Sotto un profilo stilistico, Kári riduce all’essenziale gli elementi in scena, e privilegia inquadrature fisse, morbide panoramiche e angolazioni nette. Non v’è stridore tra l’azione cinematica e la staticità del quadro, tutt’altro: il movimento fluttua in una sospensione straniante, a momenti acquorea. Gli effetti di questa messa in forma non sono esauriti dall’aura tout court del film. La quiete irreale e la rarefazione che informano Nói Albinói appaiono l’emanazione dell’angosciosa, ilare, lunare alterità di Nói, quanto l’isterica ipercinesi e le violenze sintattiche del lontano e vicino Julien donkey-boy (Harmony Korine, Dogma n. 6) sono leggibili come fisiologiche ripercussioni, sul piano ritmico e grammaticale, dell’idiota e schizoide diversità del protagonista. Quando le istanze dello stile s’innervano nella condizione interiore dei materiali, l’opera principia un’esistenza che ha regole affatto proprie, non parassitaria delle convenzioni della realtà e del linguaggio.
Le immagini di Kári rifulgono in quello che Bresson, sublime smembratore della figura, definisce appiattimento senza attenuazione, prescrivendo a tal fine che i fondi “non assorbano le facce che vi applichi sopra”.. Da qui alla trasformazione dello sfondo in una nera omogenea campitura davanti alla quale le figure si stagliano come parti di un bassorilievo (è l’esempio estremo di Jarman in un cinema ancora narrativo) il passo è breve. A monte di tali procedimenti, pulsa una visione dove l’incanto dei corpi s’inscrive nella placida disillusione verso le cose del mondo.
Tragica o tragicomica, col Beckett di “Murphy”, in fondo la “vita non è che figura e sfondo” o “il sistema delle figure, davanti all’enorme confusione che gorgoglia e germoglia”, niente più che un “lungo ritorno a tentoni”.
Resistere alle livellanti seduzioni del caos e vibrare davanti alle sue disarmonie. È lo scampo della figura, per non sprofondare nell’indistinzione.

La morte a lavoro
…il tempo sta fermo, e io con esso. Tutti i piani che formulo, volano indietro direttamente su di me; se voglio sputare, sputo su di me, sul mio viso.
Kierkegaard, “Enten-Eller”

In un’intervista apparsa sul sito della Lucky Red, Dagur Kári manifesta una vera passione per le sit-com (dove mancano i soliti noiosi eroi e i personaggi affrontano gli stessi problemi in ogni episodio) e parla dei Simpson come di una fonte di ispirazione primaria. L’indicazione non è fuorviante: la fatale parabola che si compie nel film ha qualcosa in comune col catastrofismo circolare che informa gli episodi della serie ideata da Matt Groening. Alla svolta che stravolge positivamente la vita della famiglia Simpson, segue un distruttivo rovesciamento, affinché nel finale tutto ritorni com’era in principio. Nella tragicommedia di Kári, se infine il cerchio si chiude, vanificando ogni azione compiuta da Nói, niente potrà più essere com’era prima. Dopo avervi flirtato, il regista ribalta drasticamente la logica della sit-com: la serie potenziale soccombe con la totale distruzione della quotidianità del protagonista. Il “ritorno a tentoni” di Nói è agghiacciato da un azzerante disastro, forse una fulminante nemesi, che arriva ex abrupto, rombo di tuono fuoricampo, d’un botto. Il frastuono e lo schermo nero che perturbano la rappresentazione sono effetti della valanga che ha travolto Iris, Oskar, il padre e la nonna di Nói, come scopriremo più avanti, assieme al superstite. Prima l’effetto, poi la causa, è un altro imperativo bressoniano.

Appena entrato nel negozio di Oskar, Nói trova l’amico nel vivo di una lettura: “Sposati, te ne pentirai; non sposarti, te ne pentirai anche… Ridi delle follie del mondo, te ne pentirai; piangi su di esse, te ne pentirai ancora… Impiccati, te ne pentirai; non impiccarti, te ne pentirai anche… Questa, miei signori, è la somma della scienza della vita”. Nói si dimostra incuriosito dal brano e chiede il libro a Oskar, il quale non fa regali e preferisce cestinarlo. Il passo è espunto dai “Diapsalmata” di “Enten-Eller” (1843), dove Kierkegaard accantona ogni categoria per denunciare la radicale miseria del mondo e snudare le stigmate del proprio male di vivere. Verrebbe spontaneo liquidare la citazione del pensatore danese come una caustica boutade (lo sprezzante Oskar riduce il libro alle stronzate di uno il cui nome significa cimitero). Tuttavia, a ben vedere, se volessimo considerare Nói Albinói alla stregua di un crudele bildungsroman, il bottino esistenziale del giovane uomo sarebbe proprio l’appercezione della maligna insensatezza cosmica che Kierkegaard prefigura all’origine di qualsiasi aut aut.

“Sulla mia intima essenza pesa un affanno, un’angoscia che presente un terremoto” (“Diapsalmata”).

La vis comica del film possiede a tratti il sapore dell’ironica indulgenza di Kaurismaki (quello degli asciutti Tatjana e La fiammiferaia) verso le sue creature, ma è anche perturbata da sfumature macabre e contrappunti beffardi. Dietro il sorriso fa capolino un ghigno. Emblematica è l’esilarante scena in cui Nói rovescia maldestramente un capiente bacile pieno di sangue di maiale sul padre e la nonna, che restano seduti e attoniti nel campo medio inondato di rosso acceso, come impietriti da un grottesco assaggio di rigor mortis. Diversi punti dell’ordito, meticolosamente cadenzati, sono forieri della disgrazia in agguato. Espulso da scuola, Nói viene assunto dal prete come becchino, impiegato a scavare nel nero, sotto la coltre immacolata che avvolge il villaggio. In occasione del suo diciassettesimo compleanno, la nonna gli prepara una torta addobbata come un isolotto tropicale e gli regala un visore stereoscopico, che ha la forma di una polaroid. In soggettiva, vediamo due diapositive: un panciuto indigeno delle Hawaii e la classica veduta da cartolina completa di mare azzurro, cielo terso, sabbia bianca e palme a volontà. La coppia di immagini, che affiora due volte, rappresenta lo spiraglio onirico che dovrebbe bilanciare l’insistito reiterarsi del campo lungo del fiordo, che incombe minaccioso sul destino di Nói. Ma il regista smussa prontamente la capacità contrastiva delle visioni: la prima emersione stacca sull’inquadratura di un coniglio in gabbia, la seconda è seguita dall’altrettanto metaforico dettaglio di una nera mosca che adombra una palma della carta da parati. Nella medesima scena, la stessa mosca corre sul corpo di Nói, dal quale sembra non volersi staccare, disinvolta come su una carcassa. C’è soltanto morte intorno a Nói. È quanto predice l’oracolo. Eppure dal veggente era giunto speranzoso di ascoltare la ben augurante previsione di rito: un incontro decisivo, un guadagno inaspettato e un lungo viaggio. La brutalità del responso lo fa vacillare. Il campo medio in cui Nói sta seduto di fronte all’indovino e dà le spalle all’obiettivo è inquadrato attraverso una finestra. La superficie di vetro delimitante lo spazio riempito dal ragazzo è sporca, opacizzata da un alone che corrompe la nitidezza e sdefinisce i contorni della figura. La morte entra in quadro come potenza distorcente, sfigurante. Quando la sciagura intrappola Nói nella sua tana, il volto è ripreso di scorcio, smangiato da un chiaroscuro che vira nel nero con l’affievolirsi della fiammella dell’accendino. Prima che la luce fugga, l’occhio di Nói l’albino si sgrana contro le tenebre, come quello di Julien il ragazzo asino, rintanatosi sotto le coperte per cullare il cadavere del figlio neonato. Posto in salvo, Nói apprende, per voce del prete, che tutti i suoi cari sono morti. In primo piano c’è il suo cranio nudo reclinato in avanti. Gli occhi sono scomparsi dentro orbite riempite dall’ombra.

“Per riuscire mi è mancato un colpo d’ala…” (Sá-Carneiro, “Dispersão”)

L’ultima immagine del film è lo sfondo senza figura o divenuto figura della cartolina tropicale. Il selvaggio questa volta non ricompare. La diapositiva si anima. Il vento scuote le palme alla velocità di 24 fotogrammi al secondo. Non possiamo dire se si tratti di una brezza rigenerante o dell’ultima beffa di un ordine sadico. Certo è che adesso nulla più trattiene Nói. Donna, famiglia, casa, tutto distrutto. Senza vincoli, solo come un angelo, sarebbe libero di volare via, lontano. La sua ambigua ultima soggettiva non esclude tale volontà. Orfano tra le macerie, non ha perso la forza di distogliere lo sguardo dall’orrore circostante e volgerlo altrove, verso il caldo luogo della mente dove svapora il ghiaccio che screpola il cuore.

by Jonny Costantino

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