11.1.10

Antonio Spagnuolo: una scrittura febbrile, appassionata e in espansione

[Letteratura -11]

Fratture da comporre, Edizioni Kaírós, Napoli 2009

Dopo aver letto l’ultimo libretto di Antonio Spagnunolo, la prima cosa che mi sono sentita di annotare a margine, come sintesi poetica ed emozionale del florilegio è stata questa: la rilevante consistenza di un linguaggio febbrile, pulsante e appassionato.
Ho attraversato “Fratture da ricomporre” (95 pagine) d’un fiato, perché la scrittura di Spagnolo, avviluppa e tra-volge in uno spazio conoscitivo vorticoso che lascia senza respiro, che conduce e spinge in avanti. “E’ nella carne la scoperta, infine/ di un tormento che arrovella/ per finzioni sempre più imperfette” (p.79). Dinamica e in movimento, in espansione anche quando appare avvitarsi su se stessa, anche quando si fa tamburata e martellante (come un presagio di morte). E’ fatta di evocazioni ed esplorazioni condotte con l’occhio del cuore e della mente, associazioni immediate (consapevoli e non) in cui il mondo interiore ed esteriore si mescola, il momento presente viene sacrificato al passato e dove la vita è in balia di un altro tempo, di un “altrove”.
Per taluni, una scrittura così potrebbe restituire una sensazione di insensatezza e di avversione. E se questo accade è perché non siamo più abituati a spingerci tanto lontano nel nostro rapporto con le cose e con il mondo. L’accoglimento del viaggio (anche estremo) e l’esperienza della scrittura a 360 gradi consentono la ri-conquista, il riscatto, la ri-appropriazione di sé, del tempo presente e di tutto ciò che esso può rivelarci.
La forza della scrittura di Spagnolo sta nell’urgenza del dire, nei sui infiniti strati. Nel fatto che non si risparmia e non si preclude nulla. Agisce in una dimensione spaziale e temporale (a cui tutti abbiamo diritto) e che costituisce il nostro potenziale di uomini (innanzitutto) e di poeti.
In fondo, lo stile di una scrittura ci racconta quanto riusciamo ad essere nel mondo e quanto riusciamo ad accogliere il mondo e con esso il nostro stesso “io”.
Ecco, Antonio Spagnolo, dalla sua Napoli (in cui attualmente vive e opera) sembra fare tutto questo, con onestà e impegno, combattendo l’oblio e l’indifferenza, accogliendo l’avvicendarsi della vita e dei sentimenti nella loro nudità più terribile, sfavillante e misteriosa.

by Maria Pina Ciancio

*

(da Fratture da comporre)

Vedo l’ombra di mio padre ritornare
dopo lunghi silenzi:
era un istante il suo sguardo severo,
a convocare misure, divergenze,
oltre la tregua come il salto al di là
delle vele,
a pareggiare con gli scatti di lancette
la forza che mi punge.
Quello che non voglio e gli altri chiamano
pensiero
ha forma inestricabile ed amara.
Quante attese furiose, e le paure,
sembrano scomparse nel grande riflesso
del diniego.
Se io potessi riservare una promessa,
nella indecisa emozione,
lascerei la Croce senza più bestemmie.

(p.74)

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17.6.09

Migratorie non sono le vie degli uccelli di Fernanda Ferraresso

[Letteratura -10]
Mi faccio prossima a un battito leggero
un movimento della terra F.F.

C’è dentro i versi di questa raccolta di Fernanda Ferraresso il pulsare vivido della corporeità. Il verso che respira (Respiro. Silenzio. Respiro.) con lo stesso ritmo del corpo; la parola un otre gravido di accordi, luci e semi che germogliano e si espandono d’intorno, lasciando essenze, aromi e nettare nell’aria “ il mio corpo è un pianeta di falesie / e picchiare di uccelli che in me vorrebbero tracciare un nodo di voli” (p.82).
Il linguaggio è interiore e viscerale, permeato di una sensualità lieve, da cui il lettore viene travolto, in un procedere che è “incontro”, “congiungimento”, ricerca oltre la soglia del dicibile.

Sono qui distesa.... muta.... ad ascoltarti.... e nuda. (p.85)

E’ il fascino della scrittura visionaria e onirica, che nella sua intima inafferrabilità acquisisce un aspetto lieve e prossimo al sacro.
L’io lirico è al centro della raccolta, in continua tensione verso l’altro. Un corpo (un sé) che si completa e si eleva nell’attraversamento e nel congiungimento-fusione (anche quando l’altro è assenza o mancanza, anche nella metabolizzazione del lutto)

Quando mi baci
amore rovesciami dentro la notte
con una scodella di latte (p.19)
*
Per ascoltarti mi dispongo in un nudo silenzio
terra io stessa e piana innanzi a te” (p.85)

Frequente è l’uso di riuscitissime metafore, similitudini, analogie, sperimentazioni lessicali che dilatano e ampliano il verso, sgravano il vortice della ricerca, così come i rimandi evocativi (tanti) uterini, ombelicali, riconosciuti come “gli anelli di una spina/ vertebra candida e sonora/ che finalmente mi regge” (p.28).
Un libro da ascoltare più che da leggere, a cui affidarsi e da cui lasciarsi condurre, perché le maglie che lo tessono “tramanti”, “perimetrali”, “migratorie”, sono filigrane riconoscibili, condivisibili e dell’appartenenza.

Fernanda Ferraresso, Migratorie non sono le vie degli uccelli, Il ponte del sale 2009

Riferimento sul web: http://fernirosso.wordpress.com/


by Maria Pina Ciancio

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16.6.09

Gian Ruggero Manzoni intervistato da Elisa Ravaglia

[Letteratura -11]
Intervista inedita a cura di Elisa Ravaglia (giugno 2009)

Elisa Ravagli: che cosa pensi del binomio "Scrittura creativa"? e dei corsi di scrittura creativa in genere?

GRM: Sinceramente non ho mai creduto ai cosiddetti corsi di “Scrittura Creativa” visto che sono da sempre dell’idea che si nasca artisti e non lo si possa diventare. Al massimo si potrà raffinare lo stile, ci si potrà rapportare-confrontare con altri artisti o con addetti ai lavori, bravi, per ragionare su quello che si sta facendo, ma temo sia impossibile divenire artista se già la natura non ti ha concesso il dono. E’ come andare in Seminario se già di tuo non hai la fede, cioè una tua visione di Dio, quell’amore. Là studierai teologia e ti confronterai con altri che credono in quel che credi, ma, e lo ripeto, la fede e il votarsi a una missione di vita devono già essere tuoi. Tutto ciò che implica una sorta di ‘mistica’, così io vedo l’arte, scatta a priori del sapere, visto che è un sentire… un sentire diverso dagli altri. Detto ciò, il binomio Scrittura Creativa è una contraddizioni in termini. Al limite si potrebbe coniare: “Corsi per scrivere con padronanza dello strumento” oppure “Corsi per scoprire se sono uno scrittore o un fantino”, ma di creatività, in detti incontri, ne vedo ben poca. Forse se pratichi un genere, cioè il giallo, la fantascienza o che altro, puoi anche scrivere con solo il mestiere quale ausilio, ma l’Arte è a prescindere dal mestiere e dall’artigianato che poi ti aiutano a renderla in libro, in tela, in cinema, in concerto etc. Come puoi insegnare un quid di questo tipo? E’ come se Gesù fosse andata a scuola per rapportarsi con l’Assoluto e, soprattutto, per dirsi Dio… e mi si perdoni l’azzardo, ma rende. Sono romantico ed elitario in questo? Sì, e ne sono felice.

ER: si può insegnare a scrivere ? se sì come? il talento si allena oppure se ce l'ha bene se non ce l'hai amen?


GRM: Ho già detto nella prima domanda, ma dirò ancora. Scriveva Wilde: “L’Arte appartiene a coloro che la sanno distinguere in sé dalla prima gioventù”, concetto, espresso in altra accezione, anche da Rimbaud e da tanti ‘grandi’, definiamoli così. Certo che si può insegnare a scrivere; obbligatoriamente lo Stato italiano ora cerca di accompagnarti in questo fino ai sedici anni, e così s’impara a fare di conto, si conoscono quali sono i fiumi che sboccano nell’Oceano Atlantico o, in Storia, cosa significa una data come il 1789, ma fine lì. Il talento è altro e non ha nulla a che fare col sapere, infatti significa il viaggiare in una dimensione dell’essere che non è di tutti, quindi è materia che non potrà mai venire insegnata a scuola. In vita potrai incontrare altri tuoi simili, a viso o tramite la lettura delle loro opere, ma mai, anche un tuo simile, potrà insegnarti chi sei e, tanto meno, quello che sarai in arte. Comunque, se dovessi consigliare a un giovane dove andare a raffinare il dono che già ha in sé, gli direi di iscriversi a un “corso” tenuto da uno scrittore di valore… ma sono pochi gli scrittori o i poeti di valore che insegnano il come poter scrivere, nel modo più congeniale, al giovane talento che hanno davanti, perché, di solito, gli scrittori e i poeti di valore non credono a questi corsi di “taglio e cuci” o di “giardinaggio”. Come succede nel mondo anglosassone, visto che la richiesta pare ci sia, necessiterebbe che tali “corsi” si tenessero all’interno degli atenei, quindi che addivenissero a programma gratuito di studio per chi vuole partecipare, al fine, come ho detto sopra, di aiutare oppure scoprire il talento qualora ci sia, per il resto, fuori dalle università, di solito si trasformano in “corsi d’intrattenimento” per passare un paio d’ore assieme leggendo all’insegnante, o pseudo tale, e leggendo ad altri che ‘aspirano’ all’Olimpo, i propri ‘birignao’ oppure, per chi li tiene, cioè per l’insegnante, o pseudo tale, per dirsi un qualcuno o per spillare soldi agli sprovveduti o a quei deliranti, e ce ne sono a milioni in Italia, che credono di essere artisti perché mettono una parola dietro l’altra. Sarebbe molto meglio che tali deliranti andassero da un bravo psicoanalista, forse ne guadagneremmo tutti, soprattutto ci risparmieremmo la marea di materiali inesistenti che giungono alle riviste o alle case editrici in questa follia dilagante del voler essere ‘creativo’ (poeta, narratore, sceneggiatore etc.) a tutti i costi.

ER: si scrive senza pensare? come scrive gian ruggero manzoni? è vero che la cosa più urgente che hai da dire è quella che esce subito?

GRM: A volte si scrive senza pensare, cioè sotto dettatura degli altri te che volano in dimensioni che non sono il reale, o, almeno, quello che definiamo come tale, oppure pensando, cioè con un progetto ben definito già in mente, o, almeno, con l’ossatura di quel progetto già chiara; in questo, quindi, non esiste ricetta e, proprio per questo, è impossibile insegnare il come, il dove e il quando scrivere. Come si può insegnare la magia? … la magia, e non l’illusionismo, intendiamoci bene, e cominciamo a dare il giusto significato alle parole. Per quel che mi riguarda scrivo come uno sciamano che getta le ossa per interpretare il futuro. Sì, io scrivo così… e posso dirlo dopo oltre trent’anni di scrittura. Poi rivedo. Ma il gesto del lanciare le ossa sulla sabbia va di suo, una volta inteso quale sia il tuo compito e scoperto il dono che hai. Del resto è talmente privato l’atto del creare che per me risulterebbe impossibile praticarlo in comunità. Al massimo accetto chi mi sta di fronte, uno per volta, e mi domanda d’interrogare le ossa anche per lui o lei, ma ciò avviene talmente di rado che lo si fa, solo, quando incontri un tuo simile. Ma i tuoi simili sono a tal punto sparsi sul pianeta che se ne incontri cinque in una vita puoi considerarti fortunato. Già cinque condivisioni di tale magia sono un record, un lusso, che pochi hanno avuto. Riguardo l’urgenza rispondo: no. Non è la ‘cosa’ più urgente quella che viene fuori quando scrivi, ma tutt’altro, è quella che hai nel profondo, e che spesso neppure conosci. In questo lo stupore del fare arte. Se scrivi l’urgenza di solito scrivi la “malattia di vita” che in te alberga, e ciò non è arte, è sfogo, è diario, è cronaca superficiale. Anche in questo caso meglio andare dallo psicanalista o, ancora meglio, dallo psichiatra.

ER: come fai a capire se quello che leggi porta dentro il talento? mi fai degli esempi e me li motivi?

GRM: Non posso motivarti un bel niente. O senti o non senti. Dopo aver letto le prime dieci righe di un romanzo comprendo subito se viaggia o non viaggia, così mi succede con la poesia o entrando in una galleria d’arte… colgo subito le opere che funzionano, che sono di valore, anche se hanno una matrice concettuale all’ennesima potenza; le senti, poi ti soffermi a pensare, le analizzi, ma è la prima sensazione quella che conta. Quando ti imbatti nel talento lo avverti subito. La prima volta che incontrai un’opera di Burri vidi l’aura che emanava, e la stessa aura la vidi attorno a lui quando lo conobbi di persona; ciò non mi è successo, ad esempio, quando ho incontrato Umberto Eco, già mio prof al Dams, infatti Eco, pur bravissimo nel suo mestiere, non è un artista, non è un mago, ma è un’intellettuale prestato alla narrativa, e la differenza esiste, così come novecentonovantanove individui che scrivono poesie su mille sono intellettuali, figli della scuola dell’obbligo, che si cimentano in poesia, solo quell’uno che resta è un poeta vero. I libri dei grandi scrittori emanano anch’essi luce, oppure tenebra profonda, che pure è un’altra aura, ma emanano. Se sei a tua volta la cogli subito, se non sei: ciao. Ecco perché, in Italia, saranno venti i grandi; i restanti, me compreso, appartengono a sottolegioni di angeli o demoni… seppure anche così sia un privilegio non da poco, considerati i tanti che neppure riescono a volare come una gallina.

ER: domanda per un uomo anche di teatro: in che relazione stanno corpo e scrittura?

GRM:Totale. A vent’anni scrissi il Manifesto del Visceralismo… con questo reputo di averti risposto.

ER: hai un maestro? scrittura-maestro-allievo che significato ha per te questa triade di parole?

Ne ho avuti a suo tempo, quando leggevo molto, tutti morti, però. Pochissimi nati nel ’900, in particolare in Italia, come poi nei secoli precedenti. Comunque è l’uomo il mio maestro. Sono gli uomini che mi hanno insegnato a raffinare il talento, lo studiarli, il cercare di non essere come la maggior parte di loro. Ad esempio posso dire che Junger o Testori son stati fra i miei maestri, ma Junger o Testori, in primo luogo, mi hanno insegnato a essere Uomo con la U maiuscola, non scrittore o poeta o pittore o drammaturgo. I maestri t’insegnano a scoprire in te come essere uomo, possono porsi come esempi di ribellione, di coerenza cultural-esistenziale, di ‘diversità’, possono dimostrarti che l’onestà intellettuale esiste ancora ed è esistita, ma il lavoro grosso sei sempre tu a doverlo fare su te stesso. Infine sei tu che ti dai il Codice nonché il Metodo, e in ciò dimora l’originalità dello Stile, cioè quello che ti contraddistingue e ti eleva… facendoti, appunto, volare.

ER: Sscrittura empatica o simpatica? mi fai degli esempi?

GRM: Se “simpatico” sta come “inchiostro (appunto) simpatico”, cioè che non puoi leggere quel che è scritto se non possiedi il segreto del come farlo apparire, beh, allora e senza dubbio, da buon esoterico, amo la seconda. Comunque, a parte la ‘buttata’, che poi buttata, per me, non è, necessita specificare. Una scrittura è Empatica quando si provano i sentimenti dell’altro, oppure li si avvertono, li si comprendono, così come si colgono i tempi, le tendenze dominanti, perché parte di te, perciò, tale modo di affrontare lo scrivere, lo si può anche adattare; ma in detta accezione il rischio diventa lo scrivere per compiacere, per dirsi consapevoli e ricercare l’applauso, il successo, magari il denaro; una scrittura è invece Simpatica quando si tenta, con essa, di dare delle risposte a chi, ad esempio, sta male, è pressato dal proprio Sé, e si ha volontà di aiutarlo, sviscerando il problema che lo angoscia, senza essere soggetto, a propria volta, di tale condizione, ma anche in questo caso si può barare; se invece una scrittura è Empatica e Simpatica, allo stesso tempo, il tutto, a mio avviso, può diventare più interessante perché, oltre a cogliere lo stato d’animo dell’altro o degli altri e a sentirsi uniti a lui-loro si cerca, anche, di trovare soluzioni d’insieme. Resta il fatto che tutto può risolversi in un’illusione, in un teatro, in cui autore-attore e spettatori, infine, peccano dello stesso male, cioè: il bisogno. Tirandomi fuori da questo vortice, io sono per una scrittura (libera e singolare) che risponda solo al mio bisogno personale, senza, perciò, tendere trappole oppure senza fare l’infermiere di turno; quindi una scrittura che renda piacere in primo luogo a me stesso, che emozioni me stesso, tramite cui racconto (sempre a me stesso) quel che mi fa vibrare o che m’interessa sviscerare, senza pormi alcuna domanda riguardo all’altro da me; poi, se il narrato, potrà far godere anche altri, bene, altrimenti ciao, ognuno per la propria strada, visto che il problema, almeno per come io vivo l’arte oggi, non sussiste. Sono da sempre un “cane sciolto” e reputo che, a cinquantadue anni, lo resterò fino alla morte. Esempi? La maggior parte della narrativa che ora viene proposta è empaticamente malandrina e simpaticamente inconcludente; malandrina quando cerca consenso, inconcludente quando nulla cambia, cioè non “guarisce”, non somministra una “cura”. Resta una quinta ipotesi (dopo l’empatia, la simpatia, l’empa-simpatia e il piacere personale)… la scrittura che cerca di ‘indottrinare-condizionare’, riuscendoci; ma non vedo Titani di tale calibro in giro; non vedo per ora ‘maghi’ con tale potere… e me ne dispiace alquanto. Accontentiamoci, perciò, di una qualche emozione, colta qua e là, da questo o quell’autore, e continuiamo a scriverci i libri che ci piacerebbe leggere, spaziando come e dove meglio ci pare.

(recensione a cura dell'Associazione LucaniArt ONLUS)

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15.6.09

Preghiere di una poetessa di Antonietta Gnerre

[Letteratura -9]
in “Lo spirito della poesia”, Fara Editore 2008 (pp 79-94)

I versi di questa raccolta di Antonietta Gnerre, colpiscono per la levità e la delicatezza con cui si dispongono e si affacciano sulla soglia, facendosi segno, preghiera e dono: parola testimonianza “povera e nuda di fronte al mistero”.
L’esperienza di scrittura della poetessa campana, si dipana dentro quel filone storico-letterario della buona poesia mistico-religiosa, che da San Francesco e Jacopone Da Todi, giunge attraverso Davide Maria Turoldo fino ai giorni nostri.
Nei versi di questa silloge (contenuta nel volume “Lo spirito della poesia”), si manifesta la ricerca del giusto, di una verità che non risiede nelle leggi dell’uomo e del mondo,


“noi viandanti
fatti di paglia e di sfere travagliate” (p.83)

“viviamo in case abbandonate dalle colombe
macerate dalla storia senza sorrisi
di questo vuoto religioso” (p.81)

c’è piuttosto la consapevolezza del disagio esistenziale, delle difficoltà della vita, delle grandi e piccole catastrofi, che attraversano il pianeta. Non rifiuto del mondo, dunque, ma accettazione, partecipazione e attraversamento.
Un attraversamento che si fa speranza e rivelazione.

“camminavo col cuore in tumulto
nessun miraggio di palme

per ogni sorta di male sono passata” (p.89)

Ciò che colpisce è l’umiltà del dire “prego/ su ciò che posso sopportare (p.83), “le mie preghiere sono piccole/ navi che viaggiano” (p. 86) e la capacità (che è bellezza e forza) di riconoscere e di affidarsi a una dimensione altra, quella di un Dio creatore: luce, fiato e “limpida voce che suona le corde del cuore”.
Si potrebbero definire questi versi delle vere e proprie laudi, cioè delle lodi al creato e al creatore (che nell’ultima sezione si elevano, in forma di piccoli haiku alla Vergine), in cui l’ascesi si manifesta nell’abbandono a Dio e alla sua benevola carità cristiana.
Concludo questa nota, senza dimenticare di sottolineare il pregio e il valore di questi versi dal punto di vista stilistico e letterario, per un uso particolareggiato della metafora, che con il suo potere evocativo, suggerisce relazioni e richiami fortissimi, che rimandano a quel Mistero inafferrabile che sostiene tutta l’opera (poesia-preghiera) della Gnerre.
(antologia a cura di Alessandro Ramberti)

by Maria Pina Ciancio

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11.5.08

CINEMA/ Notturno bus di Davide Marengo

[pellicole -26]

(ad Antonella, amica e confidente preziosa)

"Notturno bus", è un film di Davide Marengo uscito nella stagione 2006–2007 ed è tratto dall’omonimo romanzo di Giampiero Rigosi. La storia racconta l’incontro-scontro tra Leila, una affascinante Giovanna Mezzogiorno, bella e giovane falsaria che vive di piccoli furti e truffe, e Franz interpretato da Valerio Mastandrea, ingenuo e generoso autista di autobus con la passione per il poker, che ad un passo dalla laurea in filosofia ha mollato tutto per la sicurezza del posto fisso. Due solitudini, due vite a metà che, per un puro disegno del destino, si trovano loro malgrado imbrigliate in un complesso e pericoloso gioco di potenti senza scrupoli, servizi segreti deviati e non, piccola e grande criminalità. E come in una favola i due ragazzi insieme riescono a ritrovare il bandolo dell’intricata matassa e a risolvere l’impasse della propria esistenza, salvo poi per il finale, triste epilogo. "Notturno bus" è una miscellanea di tanti generi: si passa dalla commedia, all’azione, al noir fino ad arrivare al sentimentalismo più puro. Ogni elemento è ben dosato, e il ritmo rimane costante per tutta la durata del film. Uno strano cocktail, in cui la risata si unisce alla riflessione: ma il risultato alla fine è vincente. Il protagonista involontario del film è Franz, un disilluso e nevrotico conducente d’autobus. In una notte come tante Franz fa un incontro che cambierà per sempre la sua vita: a una fermata farà conoscenza con la misteriosa Leila, una strana ragazza in fuga da non si sa chi e con addosso un travestimento per non essere riconosciuta. Rimasto stordito e affascinato dall’incontro, Franz ospita la ragazza a casa sua, non accorgendosi che in realtà ne è rimasto inconsapevolmente ammaliato e raggirato. Leila infatti altri non è che una bugiarda truffatrice, inseguita da due loschi personaggi che non hanno buone intenzioni nei suoi confronti, oltre che da uno svampito agente dei servizi segreti. Cercando rifugio nel Notturno Bus intreccerà inevitabilmente la sua vita con quella dell’uomo che, inizialmente, vede soltanto come una via d’uscita, ma col tempo fra i due nasce un amore. Franz è un conducente di autobus che anche nella vita ha sempre guardato nello specchietto retrovisore. Una notte sul suo bus deserto incontra per caso questa ragazza in fuga coi boccoli rossi e i piedi scalzi. Non fa in tempo a negarle una sigaretta che la donna si è già liberata della sua parrucca e si è infilata nel suo letto, ma soltanto per avere un posto in cui passare la notte e nascondersi. L'affascinante donna con gli occhi da gatta è infatti una scaltra e bugiarda truffatrice il cui primo colpo risale a quando aveva tre anni. Inseguita da una coppia di grotteschi killer, il caciarone e violento Garofano, e il laconico e spietato torturatore dallo stomaco debole Diolaiti, oltre che da un romantico agente dei servizi segreti, la ragazza cercherà protezione sull'autobus notturno di Franz "cuor di leone", come lo chiama lei. Lui, filosofo mancato, "normalmente vile" secondo una sua stessa ammissione, braccato a sua volta per debiti di gioco da un energumeno fondamentalmente buono di nome Titti, cercherà con scarsi risultati di resistere a quello che dopo anni di terapia ha inquadrato come il prototipo della donna sbagliata. Leila è una ragazza senza radici che vive di espedienti, piccole truffe e piccoli furti, una solitaria, molto seduttiva, in perenne lotta per la vita e in perenne fuga dalle emozioni sincere, che possono renderla fragile. Franz è un uomo profondo ma passivo, uno che pensa molto e agisce poco. Ha lasciato l'università ad un passo dalla laurea in filosofia, fa l'autista di autobus, chiuso in una vita sonnacchiosa tra bar e vecchi amici. Le uniche emozioni le prova al tavolo da poker, dove perde regolarmente, tanto che è braccato appunto da Titti, nome da canarino ma corpaccio da energumeno, a cui deve un bel pò di soldi. Il fato spinge Leila e Franz in mezzo ad una lotta spietata per un microchip che può rovinare un personaggio molto potente. A cercarlo ci sono agenti dei servizi segreti deviati e non. Leila, durante una delle sue piccole truffe, infatti ha rubato senza accorgersene il microchip e si ritrova braccata dagli agenti. Sfugge alla morte per un soffio e si ritrova su un autobus notturno a chiedere aiuto all'autista, Franz, che crede di aiutare una ragazza che si nasconde da un fidanzato tradito e quando capisce in che pasticcio è finito è troppo tardi: ormai è stato individuato come complice ed è costretto a continuare la fuga insieme a Leila. Questo bel film inizia con uno squillo minaccioso di un telefono che accompagna i titoli di testa, in bianco, che appaiono progressivamente su sfondo nero. Dedicato a Gillo Pontecorvo è il lungometraggio di finzione ad opera di Davide Marengo, nel cui curriculum artistico, oltre a videoclip, spot pubblicitari e cortometraggi, troviamo "Craj", documentario sulla musica popolare pugliese. E, non a caso, proprio le azzeccate musiche di Mario Rivera e Gabriele Coen, alle quali si aggiungono "Mi persi" e "La Paranza" di Daniele Silvestri, sembrano prepotentemente imporsi tra i protagonisti della vicenda. Mentre scorre il film ci si rende subito conto del fatto che, nonostante l'evidente lato ironico, conferito in particolar modo dalle divertenti battute snocciolate da Franz - Mastandrea, la tipologia di spettacolo che scorre davanti ai nostri occhi si presenta con le fattezze di un mix volto a coinvolgere diversi generi, dal racconto d'azione alla commedia romantica. Tra ombre sui volti ed un’affascinante fotografia bluastra nelle sequenze notturne questo film pare concludersi bene, ma in realtà non va a finire proprio come ci si aspetti finisca … Una favola moderna dai toni grotteschi che ho trovato molto bella ed adatta a descrivere per una “sorta” di similitudine certe vicende inventate ma che a volte sono più vere della stessa realtà, in quanto storie come quella raccontata da Marengo ci possono capitare, eccome se ci capitano!

by Mariano Lizzadro

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10.2.08

CINEMA/ In anteprima una lettura di "Into the Wild" di Sean Penn

[pellicole -25]
“Per non essere mai più avvelenato dalla civiltà, egli fugge, e solo cammina sulla terra per smarrirsi nella foresta” Chris McCandless

E’ finalmente uscito il film “Into the Wild”, di Sean Penn, che tanto attendevamo. “Into the Wild” si rifà alla storia vera di Chris McCandless, raccontata nel libro pubblicato in Italia da Corbaccio “Nelle terre estreme” di Jon Krakauer. Sulla qualità tecnica del film non mi dilungo; basta dire che è davvero bellissimo, uno dei film migliori usciti negli ultimi anni forse… “Into the Wild” si presenta come la storia di un viaggio, un classico viaggio on the road sulle strade dell’immenso ovest americano, con una destinazione ben precisa, l’Alaska, con i suoi immensi spazi selvaggi, che diventa la meta ideale e anche l’epilogo finale dell’intera avventura. Chris McCandless non è che un emblema dei tanti sognatori folli e romantici che hanno cercato nella wilderness il sogno della loro liberazione. Chris è un ragazzo particolare, cresciuto in una famiglia benestante, il quale non sopporta il vuoto conformismo dei doveri e delle aspettative borghesi, come la carriera, gli oggetti di consumo di cui circondarsi, la patina di rapporti familiari stabili, ma che nascondono in realtà astio ed incomprensione. Chris è un ragazzo che vuole fuggire da tutto questo e cerca nella natura e nel vagabondare senza meta l’opportunità di una liberazione autentica, la sperimentazione della vitalità pura, la possibilità di trovarsi faccia a faccia con se stesso. Prima di partire, darà in beneficenza tutti i suoi risparmi e si metterà un nuovo nome: Alex Supertramp. Nel suo lungo vagabondare, durato due anni, incontrerà numerose persone; tutte saranno colpite dal carattere giocoso ed affabile di Chris, ed egli, come viene mostrato anche nel film, rimarrà nei cuori di molta gente. Incontrerà hippie e contadini, viaggerà clandestino sui vagoni dei treni come il Jack London de “La strada”; incontrerà una ragazza che si innamorerà di lui, e alla fine un vecchio solo e stanco, che vorrebbe adottare Chris come un figlio o un nipote. Forse il rapporto d’amicizia che si instaura tra Chris ed il vecchio è una delle parti più toccanti dell’intero film (e quindi dell’intera autentica vicenda). Chris incoraggerà il vecchio ad uscire dalla solitudine, ad aprire gli occhi sulla grandezza e la bellezza del mondo, a spostarsi e viaggiare. In primavera Chris ha finalmente l’opportunità di realizzare il suo sogno: vivere per un certo periodo di tempo da solo in mezzo alla natura selvaggia, procurandosi il cibo con la caccia e la raccolta. Si accamperà in un vecchio pulmino abbandonato nella foresta, che diverrà in qualche modo il suo “campo base”. Chris intraprende la sua avventura in maniera (volutamente) impreparata, senza una cartina della zona, con pochi viveri e poca attrezzatura. Forse il suo desiderio era quello di riuscire, con la sua caparbia volontà, di sopravvivere nella natura con poco. Ma forse c’era anche un desiderio inconscio di voler essere sopraffatto dalla natura, in una specie di recondita volontà d’annientamento, non esplicitata ma presente comunque nella decisione di chi cerca la solitudine nella wilderness, sottoponendosi ad ogni sorta di pericolo. Di sicuro McCandless, anche se spericolato, non ambiva al suicidio. La sua personalità, per quanto controversa, lo portava ad essere istrionico e giocoso. Mc Candless non ha cercato la morte: egli era invece innamorato della vita e di ciò che in essa c’è di più bello e maestoso. Mc Candless cercava l’autenticità e la verità; i suoi principi comportavano l’esaltazione della vita e non già il ripiegamento verso se stessi o l’autocommiserazione. E’ uno spirito che ricorda parecchio Jack London. Non per niente Jack London era uno degli scrittori preferiti di Chris e se vogliamo, persino la sua stessa vicenda, soprattutto nella sua drammatica fase conclusiva, ricorda molto alcuni racconti del grande scrittore americano, dove gli uomini sono alle prese con la lotta per la vita, nell’ asprezza selvaggia dello Yukon. Mc Candless riesce a trascorrere sedici settimane da solo, vivendo solo di caccia e raccolta. Annoterà sulle pagine bianche di un libro di botanica l’esito delle sue battute di caccia e di raccolta. Dopo circa due mesi Chris aveva deciso di avviarsi sulla strada del ritorno. Ma c’è un imprevisto: il fiume che aveva guadato al suo arrivo con relativa facilità il mese prima è ingrossato dalla piena. Non può guadarlo e decide di ritornare indietro al pulmino abbandonato. Se avesse avuto una carta della zona, avrebbe visto che pochi chilometri più sopra probabilmente il fiume avrebbe potuto essereattraversato. Le settimane successive vedranno un calo della selvaggina nei dintorni. Mc Candless è costretto probabilmente a cibarsi di radici e bacche selvatiche. A questo punto commetterà un errore che gli costerà la vita: mangerà, scambiandola come specie commestibile, alcune bacche selvatiche velenose, che gli procureranno debolezza e denutrizione. Chris era uno studioso delle piante selvatiche e aveva portato con sé i suoi manuali. Ma la natura è sempre imprevedibile e sfugge a volte alle nostre classificazioni e categorizzazioni. Non avendo più le forze per cacciare, né per tentare di tornare indietro, la vita di Chris è destinata ad una tragica sorte: quella di morire di fame in solitudine. La natura che esalta con la sua bellezza e il suo mistero ha un nucleo che è definito, come dichiara il regista Werner Herzog, da “caos, conflitto e morte”. La natura non è per niente idilliaca, perché essa con la sua forza ci soverchia e ci distrugge... ma forse a ben vedere anche in questo sta il suo fascino e il suo irresistibile richiamo. Ogni imprudenza commessa da parte dell’uomo, nel Wild non può che essere fatale. Le bellissime scene finali del film evidenziano proprio quest’aspetto, con il giovane McCandless solo, a riflettere sulla sua condizione, mentre fuori, nel mondo naturale, continua la lotta spietata per la sopravvivenza. Una carcassa di alce, ucciso dal ragazzo con lo scopo di conservarne la carne, è invasa dai vermi; accorrono un branco di lupi ed un’aquila per spartirsi il bottino… Un orso enorme passa nei dintorni, accanto a Chris… la morte e il pericolo sono sempre in agguato… Allo stremo delle forze, ormai consapevole di morire, evidenzierà una frase da un libro di Pasternak (che assieme a Toltstoj e a London è uno dei suoi scrittori preferiti): “la felicità se è vera non può che essere condivisa”. Non possiamo fuggire dalla civiltà abbandonando la famiglia e in generale le persone che ci amano, inseguendo un sogno di libertà che alla fine non può che rivelarsi utopia. Chris l’aveva capito e voleva tornare indietro; fu solo per una tragica fatalità che non poté tornare nel mondo civile per testimoniare il suo amore per la vita e la bellezza della natura. Chris per alcuni rappresenterà un eroe, per altri un folle o un ingenuo. Sicuramente in un mondo ipocrita e povero di ideali come il nostro, la sua figura non può che ispirare simpatia e riconoscenza… potremo permetterci di giudicare un giovane che ha cercato nella vita “verità” e “autenticità” ?
by Saverio De Marco

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30.1.08

In stasi irregolare di Antonella Pizzo e i versi dell’istante eterno

[letteratura -8]
“Sono per te l’aurora e intatto giorno” Ungaretti

Questo di Antonella Pizzo è un libro febbrile e visionario che si fa strada ed entra sottilmente nei pori del respiro e della pelle. Come aria e vento. Come pioggia che batte.
Pulsante. Incisivo e disarmante.
Nasce da un progetto dal taglio strettamente privato e autobiografico, costellato di momenti prosastici e di ispirazione lirica di grande pathos, che si snoda “in uno spazio che non è più spazio/ in un luogo che non è più luogo”.
Dedicato a Martina, la figlia scomparsa prematuramente in un incidente d’auto. Dedicato un po’ a tutte le donne e le madri “dall’utero rinsecchito” che gridano vendetta.

“Madri che gridano vendetta
per ogni osso spezzato, per ogni dente
non ci sarà a San Nicola
e nel cuscino e sotto la moneta…”
(p.31)

E’ un dolore accorato dell’anima e della carne quello che attraversa la silloge “in stasi irregolare”, di un peso che perfora i palmi, che svuota le orbite, di polvere nel sangue o sangue nella polvere, di aghi e chiodi conficcati nei polsi e nelle caviglie, perché il dolore per la perdita di un figlio è il più grande a cui l’essere umano, e una madre nello specifico, possa andare incontro, il più difficilmente sopportabile.

“… oh lenzuola larghe e bianche ossa
ossa orizzontali ossa
oh castagne pallide
latte e capelli ad ossa
oh lunette rosse
orbite svuotate ed ossa
ossa verticali ossa
dove il mio sangue, dove la mia carne, dove le mie ossa
vita che mi si è strappata addosso
come un foglio di carta cinerina
qui è un dormiveglia in riparo dal crck
e spesso anelo a vetri trasparenti”.
(p.11)

Ecco allora il tragitto di un naufragio e di una “passione” senza scampo, di un calvario che rasenta a tratti lo sconfinamento e il travalicamento del verso. Un requiem. Un percorso poetico che si dipana tra le vie oscure dell’essere e del non essere, della vita e della morte, della caducità e dell’eterno, tra lucori onirici, memorie, fantasmi radicati nel quotidiano delle cose e degli oggetti “il suo nome si allargò a dismisura/ e si distese/ lungo un binario morto”.

“Come vorrei che tu venissi a trovarmi
di notte quando il fiato pesante
s’impicca alla finestra
quando l’aceto si fa l’abitudine e sotto le lenzuola
il dolore è recitato ora e per ore nel prossimo grano
se tu ti avvicinassi alla mia porta
con il vestito sporco di terra
nelle tasche i lombrichi grassi
con le tue quattro osso in mano
nella mano d’ossa e le orbite vuote
con un pugno di denti da contare ad uno ad uno
non avrai paura del rumore delle nacchere
delle conchiglie spezzate sotto i piedi
t’abbraccerei piano
per non sconvolgere la tua struttura fragile
ma se tu tornassi di notte e vuota ti riempirei di foglie e paglia
ei vuoti e ancora nei capelli e ancora fiori a collane
ancora a fasci ancora intatti come quando
t’allontanasti senza chiedere se potevi
a lasciarmi gli occhi a rotolare e i baci di una madre pure”.
(p. 41)

Ed è l’invocazione del sogno, della restituzione. Di un dolore “carnale” che non appiattisce e che non si appiattisce sul verso, ma che restituisce vita, tensione, energia, che scava, si afferra e cerca; che inghiotte famelico “il gesto lento”, la distensione”, “la pacificazione”. L’impossibilità di una rassegnazione.

“Ecco viene il giorno, la notte è già passata
è già mattino, nevica in certi luoghi, ed è una gioia
ma qui c’è questa pioggia sciocca
che non consola e non attutisce gli strazi
piuttosto li moltiplica in mille gocce erosive
ed ogni goccia che cade sulla pelle
apre una plaga infetta”
(p.60)

Ma da questa prospettiva di stasi irregolare, non può sfuggire all’attenzione questo bellissimo ed emblematico testo sul ritorno. Dell’intrecciarsi e compiersi di una parabola circolare. Il ritorno alla nudità dell’essere (scalza e magra). Il ritorno alla madre. Da madre a figlia.

“Tornai da mia madre a piedi scalzi, magra
con una camicia lunga, senza maniche
bussai alla sua porta
ella stava facendo un accurato pedicure
sotto una luce gialla d’acciaio la limetta
l’attenzione all’occhio di pernice
a un ricordo incallito, dolore mai estirpato
tornare a casa mia, di notte, svagata
sotto una pioggia d’acqua, poi tornare indietro
a tempo cercare le chiavi
l’urgenza, potrebbero svegliarsi e non trovarmi
il mio morbido grasso
quel mio quieto girare nel letto che rassicura
tornare a casa con una canoa, una piroga
nel ventre di una grande nave
scivolo via in piena
il braccio teso
le chiavi sospese in aria”.
(p. 45)

Ci sarebbe tanto da dire e da tacere su questi versi “sacrali” dell’anima, ma ritorno sulla foto di copertina, alla metafora del vortice, di una scala/spirale bianca che da un lato si restringe in un occhio buco/nero senza fondo, dall’altro si libera in uno spazio che avvolge, ingloba, abbraccia e va oltre. Oltre la copertina, oltre i fogli, oltre i versi stessi. Oltre.

Antonella Pizzo, In stasi irregolare
Prefazione di Gregorio Scalise, postfazione di Ivan Fedeli
Le voci della Luna Poesia
Premio Renato Giorni, 2007
pubblicato su viadellebelledonne

by Maria Pina Ciancio

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22.12.07

Il disordine come creatività: le storie allegramente assurde di Emir Kusturica

[pellicole -24]
"Poco dopo aver visto «Senso» di Luchino Visconti,
un altro film mi ha sconvolto: «La Strada» di Federico Fellini.
Lì ho fatto il mio ingresso magico nel mondo del cinema".
(Emir Kusturica)


Forse il modo migliore per fare un piccolo omaggio al cinema di Emir Kusturica sarebbe quello di scrivere semplicemente i titoli della sua filmografia. Punto e capo! Ma il fatto è che adoro molto il cinema di Emir Kusturica, amalgama perfetta di ambientazioni, generi, personaggi e storie, fantastici e fantasiosi, stimolatore di tante fantasie iconografiche, poetiche, musicali ed oniriche! Quindi questo piccolo omaggio all’immenso regista Balcanico vorrei fosse letto per quello che è: un gioco personale di costruzione fatto mettendo insieme pezzi sparsi apparsi su internet ma anche e soprattutto un invito a godervi qualche film del suddetto regista, tralasciando anche queste parole ed “aprendo” semplicemente il cuore alle immagini “Kusturichiane”! Buone visioni!

BREVISSIMI ACCENNI BIOCINEMATOGRAFICI
Emir Kusturica, uno dei più grandi cineasti viventi, nasce nel 1954 a Sarajevo.
Dopo aver abbandonato una promettente carriera da calciatore, studia quattro anni di cinema all'Accademia di Milos Forman a Praga. Al ritorno a Sarajevo, lavora per la tv e realizza i primi film: “Guernica” nel 1978, "Arrivano le spose" nel 1979 e "Caffè Titanic" nel 1980. ma il suo primo successo di critica e di pubblico avviene con
"Ti ricordi di Dolly Bell?", del 1981, segnalato come miglior opera prima al festival di Venezia e quattro anni dopo con "Papà è in viaggio d'affari", Palma d'Oro a Cannes. Sfruttando l'amicizia con Milos Forman e con l'apporto di capitali stranieri per la produzione, gira nel suo paese: "Il tempo dei gitani", premio per la miglior regia a Cannes, nel 1989. Per girare questo film dalla stupefacente improvvisazione e per descrivere in maniera realistica il popolo gitano, Kusturica, sceglie come attori veri Rom completamente analfabeti non in grado di firmare neanche il contratto e si iscrive ad una squadra di calcio in un quartiere di cinquantamila zingari per comprenderne a fondo il modo di vivere. Kusturica è regista di fama internazionale e trasferitosi a New York insegna cinema alla Columbia University. Successivamente nel 1993 realizza "Arizona Dream", Orso d'Argento e premio speciale della giuria al Festival di Berlino, film di rara bellezza poetica e onirica che abbraccia quasi tutti i generi del cinema americano. Poi è la volta di "Underground", nel 1995, di nuovo Palma d'Oro a Cannes. Dunque una carriera con molti riconoscimenti! "Gatto nero, gatto bianco", Leone d'Argento alla Mostra di Venezia nel 1998. pienissimo di continue invenzioni, racconta della travolgente vitalità di una comunità di zingari con un tocco surreale e poetico realizzata attraverso una storia interpretata, ancora una volta, da veri Rom. Nel 2001 è la volta di “Super 8 stories”, che narra le vicende della “No smoking band” il complesso musicale dello stesso Kusturica. Altri film recenti girati dal nostro regista sono: “La vita è un miracolo”, il documentario sul mondo dell’infanzia “Tutti i bambini invisibili” ed infine “Promise me this”. Variegata è inoltre anche la carriera di attore dello stesso Kusturica che oltre ad esser presente in molti dei suoi film risulta presente anche in diversi film di altri registi.

TI RICORDI DI DOLLY BELL?
Ambientato a Sarajevo nei primi anni '60, è la storia dell'educazione sentimentale del sedicenne Dino e del suo rapporto con il padre che morendo, gli lascia in eredità la sua ingenua fede nel marxismo, nella Iugoslavia socialista e nel proprio presente.
Ma in questo film corale contano anche il conflitto tra il comunismo ortodosso e il desiderio di novità, espresso con la fissazione dell'ipnosi, il trapasso verso la società dei consumi in una Sarajevo dei sobborghi abitata da una gioventù povera, il contrasto tra il vecchio e il nuovo nei costumi con risvolti sugli usi musulmani.
Fa da motivo trascinante musicale la canzone "24000 baci" di Celentano. La Dolly Bell del titolo è una spogliarellista. Dino è un adolescente che vive a Sarajevo agli inizi degli anni Sessanta, un periodo di grande apertura della Jugoslavia di Tito verso l'occidente e la vicina Italia. Il padre, un intellettuale marxista, in definitiva lo lascia vivere una gioventù povera ma molto più libera di quella delle generazioni precedenti, tra gli amici un po' vitelloni e il primo, goffo innamoramento per una ragazza troppo smaliziata. Nella Sarajevo del 1960 Dino è poco più di un adolescente con un sogno: un Occidente pieno di tentazioni appena fuori dalla Jugoslavia.
La sua vita trascorre tra gli amici, una famiglia che sembra una sezione di partito, lezioni di ipnosi e rock'n'roll. Ma un giorno arriva Dolly Bell, la spogliarellista di un vecchio film italiano, una giovane prostituta, ingenua e tenera, di cui se ne innamora perdutamente. E quando Dolly Bell se ne andrà, nulla potrà essere più come prima.

PAPA’ IN VIAGGIO D’AFFARI
“Papà è in viaggio di affari”, è un film dolce, fatto di scene molto tenere e difficili da dimenticare come le sequenze che riguardano l’innamoramento del piccolo Malik e della figlia del dottore amico di Mesa. Siamo a Sarajevo nel 1949, dopo la scomunica del Cominform e il distacco da Mosca della repubblica di Tito, lo “stalinismo degli antistalinisti!” dilaga e ne fa le spese anche Mesa, bravo uomo e assiduo frequentatore di prostitute, rinchiuso senza processo in un campo di lavoro da dove esce nel 1952. In una certa misura la storia è raccontata attraverso gli occhi innocenti di Malik, piccolo sonnambulo e figlio di Mesa. E lui il nucleo poetico di una commedia agrodolce. Tira una fresca brezza di neorealismo italiano in questo film che propone una ricca galleria di personaggi simpatici ed odiosi al contempo, insieme ad una vena umoristica e ad alcuni momenti di forte suggestione emotiva. Nella campagna intorno a Sarajevo un vecchio portinaio canta delle canzoni messicane per racimolare qualche soldo da spendere alla birreria del paese. Quando gli viene chiesto perché proprio canzoni messicane risponde: «Compagno , io voglio star tranquillo… con i tempi che corrono». A porre la domanda è Mesa, il protagonista principale del film instancabile viaggiatore per lavoro e che, durante le lunghe giornate lontano dalla famiglia, si consola con donne di facili costumi. Una di queste amanti gli costerà la libertà. Infatti la donna, probabilmente per vendicare il mancato divorzio di Mesa dalla moglie, lo denuncia alla polizia per aver discusso la politica del giornale di partito. Ciò che accade al protagonista corrisponde alla normale prassi in Jugoslavia dopo la seconda guerra mondiale dove il solo sospetto di essere un dissidente portava alla perdita di ogni diritto e nel peggiore dei casi alla morte per fucilazione. La storia è scandita dalla voce narrante del figlio minore di Mesa, il piccolo Malik, che assiste, cercando di comprendere le stranezze degli adulti. Ed assiste allo scorrere degli eventi con un desiderio fisso nella mente: riuscire a comprare con i propri risparmi il pallone di cuoio esposto nella bottega sotto casa.
La colonna sonora del film, oltre alle belle musiche balcaniche, è composta dalle radiocronache delle partite di calcio della Jugoslavia e dai radiogiornali del regime che riportavano la politica del partito e i vaneggiamenti di Tito. Un mondo variopinto e sfaccettato dove la gente, abituata a qualsiasi tipo di angheria e di vessazione da parte del regime, mirava essenzialmente, a sopravvivere con dignità.

IL TEMPO DEI GITANI
Figlio naturale di una zingara, il giovane Penhan è costretto a seguire il capo in Italia, a rubare e trafficare in bambini, nani, infermi. Perde l'innocenza, le illusioni, la vita. “Il tempo dei gitani” è un film d'amore, di avventure e un romanzo di formazione.
La sua tumultuosa vicenda procede per accumulazione su un arco di quindici anni attraverso peripezie ora buffe, ora sanguinose in altalena tra tenerezza e ignominia.
Kusturica s'è immerso nel mondo e nelle cultura dei Rom con passione senza benevolenza, con una partecipazione che non esclude la lucidità, con una simpatia che non diventa idealizzazione. Sconnesso, ridondante, visionario, innovativo e pieno di invenzioni ecco i termini che ben si adattano a questo film! Dunque il giovane Penhan abita con la nonna, la piccola sorella Daza e lo strampalato zio in un accampamento Rom in Jugoslavia. Dopo aver accompagnato la sorella a Lubiana per un intervento chirurgico ad una gamba malformata, Penhan è costretto a seguire Ahmed, il boss dell’accampamento, in Italia. Qui, dopo un’iniziale resistenza, inizierà a commerciare in bambini e a costringerne altri all’accattonaggio e alla prostituzione, fino a soppiantare nelle funzioni di capo lo stesso Ahmed, rimasto nel frattempo vittima di un colpo apoplettico che lo ha ridotto alla paralisi. Dopo aver ucciso Ahmed, Penhan verrà ucciso a sua volta dalla moglie di questo per vendetta. Kusturica col suo solito gusto iperbolico della narrazione, ne “Il tempo dei gitani” racconta di un percorso di formazione particolare che conduce alla perdita dell’innocenza del giovane Penhan, figlio naturale di una zingara cresciuto con affetto dalla corpulenta nonna. Il racconto cinematografico, la trama del film si divide idealmente in due parti nettamente distinte: la prima è quella relativa alla formazione adolescenziale, con la vita nell’accampamento Rom a contatto con la singolare famiglia, in una dimensione perennemente sospesa tra sogno e realtà, nella quale anche l’iniziazione amorosa assume le caratteristiche della fiaba gitana percepita in un contesto onirico e visionario mentre la seconda è quella del distacco dal proprio ambiente familiare con l’inganno di una possibile guarigione per la piccola Daza, nata con una malformazione alla gamba che Ahmed, il capo carismatico del villaggio, promette di risolvere grazie all’intervento chirurgico di un celebre ortopedico di Lubiana. Il distacco dalla famiglia e il conseguente trasferimento in Italia sanciscono per Penhan una discesa irrevocabile negli abissi dell’abiezione e della corruzione al seguito di un’autentica corte dei miracoli capeggiata da Ahmed senza alcuno scrupolo. Quindi all’atmosfera sognante della prima parte subentra un clima opprimente fatto da azioni riprovevoli condotte nei confronti dei minori: vendita di bambini ancora in fasce, coercizione all’accattonaggio, stupri condotti con l’intento di educare al mestiere giovani prostitute. Alla spensieratezza caratteristica del villaggio Rom si sostituisce la cappa opprimente di un’innocenza non più recuperabile. Penhan, infatti, investito direttamente da Ahmed, non più in grado di gestire la situazione dopo l’infarto occorsogli, comincia a comportarsi da vero e proprio boss senza scrupoli, al punto che penserà di vendere il figlio che la sposa gli ha dato perché sospetta che non sia frutto del suo seme. Una progressiva e irreversibile discesa verso l’annullamento di se stessi, una “sorta” di formazione al contrario, di un adolescente che aveva soltanto un’aspirazione: la guarigione della sorella, ma che in virtù di un inganno poiché la sorella, in realtà, è stata trasferita a Roma per chiedere l’elemosina sfruttando la pena che la sua gamba menomata provoca, ha gettato che diventa cattivo per necessità, per cercare di sopravvivere.

ARIZONA DREAM
Un giovane di New York di nome Axel è chiamato in Arizona dallo zio Leo che vuole insegnargli la fede nei pilastri del modo americano di vivere. Axel, invece, s'innamora di una bizzarra donna matura che potrebbe essere sua madre e con cui condivide il sogno di volare su un velivolo senza motore e fa amicizia con altri tipi bizzarri. Film stravagante, originale, un’onda di onirico surrealismo, “Arizona dream”, racconta l'America vista con gli occhi del cineasta jugoslavo, in cui Axel in questa “sorta” di paese delle meraviglie dovrebbe, per volontà dello zio fare il venditore di Cadillac, ma preferisce convivere con una donna molto più matura in una fattoria e costruire una rudimentale macchina volante. A complicare i rapporti c'è la figlia della signora, votata al suicidio. Nel frattempo conosciamo una famiglia di esquimesi coi suoi cani, e un pesce che ha entrambi gli occhi dalla stessa parte.
La ragazza alla fine riesce a morire, così come il vecchio zio. Ma il pesce si libera allegro nell'aria. L'America sembra davvero complicata! E Kusturica esorcizza questa visione di complicatezza con le sue invenzioni, le sue parabole fantastiche e grottesche, a scapito del rigore stilistico occidentale, ma a favore della fantasia per la fantasia, che non è mai cattiva cosa. Meraviglia per gli occhi, per il cuore e per l’anima!

UNDERGROUND
Nel 1941, dopo il primo raid aereo tedesco su Belgrado, comincia l'ascesa del compagno Marko, partigiano, trafficante e borsanerista. In due anni lui e il suo impetuoso amico Blacky accumulano una fortuna e la fama di eroi della resistenza finché convincono il loro clan a rifugiarsi in un sotterraneo e a fabbricare armi e altri prodotti per il mercato nero. Ci rimangono per quindici anni perché, con la complicità dell'attrice Natalija, Marko fa credere a tutti che la guerra continua e intanto diventa un pilastro del regime socialista di Tito. L'inganno dura fino al 1961 e nel trentennio successivo muoiono di morte violenta Natalija, Marko, l'innocente suo fratello Ivan e Jovan, figlio di Blacky, l'unico sopravvissuto che, tornato nel sotterraneo, sbuca attraverso un tunnel sul Danubio dove ritrova tutte le persone scomparse che ha conosciuto: è un'isoletta che va alla deriva sul fiume. E difficile stringere in una definizione di genere un grande film visionario come “Underground”. Hanno speso molti aggettivi per definirlo: picaresco, eccessivo, ridondante, straordinario, smisurato, vitalissimo, incandescente, barocco, sensuale, metaforico, allegorico eccetera . Si potrebbe dire che fa pensare ad “Alice nel paese delle meraviglie” riscritto da Kafka, con Hyeronimus Bosch come scenografo e Francis Bacon direttore della fotografia! A me fa pensare anche ad alcuni quadri Marc Chagall, al cinema di Tarkovskij, di Jodorowsky e di Ioselliani, oltre che al cinema di Vigo e Visconti esplicitamente citati. E una tragicommedia musicale con le musiche tzigane di Goran Bregovic. Un racconto straripante di feste nuziali, riti collettivi e baccanali che fanno da filo conduttore oltre che a dargli il ritmo. "C'era una volta un paese..." potrebbe essere il sottotitolo. La Iugoslavia, naturalmente. Kusturica dice che non è un film nostalgico, ma un necrologio. Forse il Paese di cui ha cercato di raccontare mezzo secolo di storia non è mai esistito. “Underground” è il sogno di un incubo, quello della Storia e del suo tempo sporco. La storia della Jugoslavia dal secondo conflitto mondiale alla guerra civile, la storia di due amici, di due fratelli in armi ed in truffa, la storia di una donna contesa, la storia di un sotterraneo per la fabbricazione d'armi. La storia di un paese immerso nel roboante conflitto di pressioni e rivendicazioni, la storia forse di un paese mai esistito veramente. “Underground” è un’abbuffata di colori, di danze, musiche, urla di dolore, rabbia, gioia e follia! Film rumoroso, assordante, come una continua baruffa, magnifica descrizione della tensione circense nei Balcani. Un carro armato perfora lo zoo di Belgrado e l'immagine degli animali che si liberano in direzioni diverse ed irrazionali è molto sottile ma evidente. O la clinica per matti, in cui tutto è concesso, in cui niente è anormale perché in fondo forse siamo tutti pazzi. Significativa la sequenza finale con il banchetto in cui tutti i protagonisti sono in armonia tra loro ma siedono in una porzione di terra che si distacca e che galleggia sull'acqua. Orgia visiva tra vino, violoncelli, erotismo ed urla, come una festa trascinante, goliardica, irrazionale Jugoslava!

GATTO NERO, GATTO BIANCO
Ambientato tra gli zingari slavi, "il solo popolo che non cambia mai e che sfiora quella che noi chiamiamo civiltà senza lasciarsene contaminare", finanziato da un pool di reti televisive europee, parlato in dialetti gitani, girato in Slovenia e sulle rive del Danubio in Serbia, “Gatto nero, gatto bianco” è un fantastico affresco di un’umanità, travolgente e vitale, divertente e allegro. Grga Pitic e Zarjie sono due vecchi amici che non si vedono da ben venticinque anni. Il primo è un padrino gitano oltre che magnate delle discariche, il secondo è proprietario di un cementificio. Sono due ottantenni che nella loro lunga vita hanno commesso ogni genere di crimine rispettandosi sempre. Matko, il figlio di Zarije, è un incapace che ha bisogno di soldi per portare a termine un affare legato al mercato nero, precisamente un carico di petrolio e dato che non ha il coraggio di rivolgersi al padre, chiede aiuto a Grga Pitic facendogli credere che suo padre è morto. Grga Pitic è profondamente colpito da questa notizia e decide di recarsi sulla tomba del vecchio amico Zarije.
Matko, soddisfatto del suo inganno, cerca di far entrare nell'affare del petrolio Dadan Karambolo, un boss dei gangster gitani. Sotto l'effetto della droga. Matko è convinto che in questo modo l'affare andrà sicuramente in porto. Purtroppo per lui non è così, perché la notte dell'arrivo del treno, viene messo a terra da degli sconosciuti e quando il giorno dopo si risveglia, scopre che il treno è scomparso. Matko non ha capito che è stato imbrogliato dallo stesso Dadan e così deve sottostare al ricatto di questo criminale senza scrupoli: far sposare il proprio figlio Zare con Afrodita, la sorella di Dadan, una donna così minuscola da essere soprannominata Ladybird. Zare però è innamorato di Ida, una cameriera tanto affascinante quanto impetuosa. Afrodita in realtà sogna un gigante buono da sposare. Il giorno delle nozze i due giovani si ribellano a questo matrimonio senza amore così la ragazza fugge approfittando della confusione della festa organizzata alla maniera gitana. Capito l'inganno, Dadan va alla ricerca della sorella. La trova in mezzo alla campagna insieme al nipote di Grga Pitic, Grga Maggiore, un ragazzone molto alto che da tempo era alla ricerca di una donna piccolina, dolce e affettuosa come lo era sua nonna. Ladybird è così piccola che potrebbe stare nel suo taschino, perfetta per lui. Tra i due è scoccata la freccia dell'amore! Dadan acconsente alle nozze perché convinto da Grga Pitic che l'amore è l'unico motivo per sposarsi. Anche Zare è felice perché così può sposare la sua amata Ida. Durante la festa muore Grga Pitic, Zarije torna dal regno dei morti, Dadan viene punito e Zare ed Ida scappano con una fisarmonica piena di soldi, dopo aver minacciato il prete con una pistola davanti a due soli testimoni: un gatto nero e un gatto bianco!

SUPER 8 STORIES
Nel mondo folle e drammatico dei Balcani è ambientato il documentario sul gruppo musicale di Emir Kusturica: La punk-band “No smoking”, divenuta famosa per la colonna sonora di “Gatto nero, gatto bianco”. La “No smoking band” è nata venti anni fa e attraverso album, concerti e tournée ha attraverso la storia della Jugoslavia.

LA VITA E’ UN MIRACOLO
Siamo in Bosnia all’inizio degli anni novanta. Luka, ingeniere serbo e sua moglie Jadranka si stabiliscono insieme al loro figlio Milios in un villaggio nel mezzo del nulla con l'intento di trasformarlo in un luogo turistico. Accecato dal suo ottimismo Luka non dà retta alle voci dello scoppio di una guerra imminente. Quando suo figlio Milos è fatto prigioniero e i militari serbi gli affidano in custodia un ostaggio musulmano: una bella ragazza di nome Sabaha, Luka finisce per innamorarsene. “Voglio continuare a credere che la vita è un miracolo perché i miracoli accadono davvero. La speranza nella nostra vita non deve essere sconfitta”. Infatti come afferma lo stesso Kusturica:”questo film è in fondo ottimista, insegna a vedere anche gli aspetti belli pur in mezzo alla tragedia”. “La vita è un miracolo” è una favola romantica e sognatrice in cui il buio della guerra nei Balcani dell’inizio degli anni Novanta viene candidamente tramutato in un quadro affascinante ed incantato.
Un ritratto di colori, danze ed eccessi, tutto velato da una atmosfera da favola.
Il personaggio principale del film, Lucka è timido ed ottimista, il suo rapporto con la guerra è quello di un Pierrot che viene strappato dal proprio mondo fatato e strapazzato dai rumori delle bombe che piovono fuori e gli altri personaggi rappresentano per Kusturica importanti pedine di un teatrino dell’assurdo, ma un assurdo poetico ed a tratti commovente. Come fare a parlare d’amore durante una guerra? Come fare convivere un cane con un gatto? Come fare innamorare un bosniaco di una musulmana? Ecco cosa sembra sussurrarci Kusturica candidamente con quest’ennesimo capolavoro!

POSSIBILE CHIOSA
Pensando fra le righe all’opera cinematografica di Kusturica le prime cose che mi vengono in mente sono: arte, storia, guerra, bambini, immagini grottesche, discriminazioni razziali, lo sguardo del bambino sul mondo, matrimoni, la figura della donna portatrice dolorosa della continuità dell'esistenza, il mondo dei gitani così poetico ed onirico e magmatico e senza costrizioni di tempo e spazio così a stretto contatto con la natura e gli animali e l’impossibilità a fare ordine in un cinema che fa della poetica del disordine e del disequilibrio la sua forza e l’impossibilità di fermarsi a pensare o a riflettere di fronte al caleidoscopio di immagini che sono forse il tratto distintivo del cinema di Emir Kusturica. E allora non possiamo far altro che seguire quel palloncino, o un velo da sposa, e lasciare che lui, l'immenso cineasta di Sarajevo, ci apra il suo cuore e continui a raccontarci disordinate storie allegramente assurde … grazie di cuore Emir!
by Mariano Lizzadro

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12.12.07

Il rumore dei treni di Eleonora Bellini

[letteratura -7]

Il rumore dei treni è la mia casa (E. Bellini)

Il rumore dei treni è un libro d’amore in versi fatto di arrivi, incontri, partenze. Stazioni, binari, palmi delle mani contro i vetri, porte che si aprono e si chiudono tra passanti frettolosi e distratti. E dentro tutto questo, il passeggero che “si svela”, il riconoscimento, “parole che poi si fanno carne/ occhi, capelli, mani”.
Di seguito alcuni versi tratti dalla raccolta di Eleonora Bellini "Il rumore dei treni" (sez. Tessere per un mosaico) pubblicata per i tipi BooK Editore (2007) con nota finale di Ariodante Mariani.

4. Rosa
Il palmo della mano contro il vetro
del finestrino -c'era un uomo
che dal marciapiede
con forza premeva quella mano-
rivelava nelle linee rosa
gli intrecci itineranti di una vita.
Dall'intreccio le rispose un'altra mano,
un altro aperto palmo contro lo stesso vetro
e fu freddo e tangibile il distacco.
........................................Quando il treno
si mosse, la partenza parve
annuncio dell'esilio.
(p.12)

5. Oro

Il luogo dell'incontro è il mezzogiorno,
quando il sole arde e di noi
non ha pensiero, quando la stazione
conta i suoi transiti, culla le sue folle.
Un battito più forte dà il segnale:
frena il convoglio, si aprono le porte
e scende chi era atteso. Si svela
il passeggero e assume le sembianze
note, le più desiderate. Sfumano
nell'aria le parole e poi si fanno carne,
occhi, capelli e mani. Si apre
l'hortus conclusus del riconoscimento.
(p.13)


12. Grigio

Il terzo treno ebbe una partenza
più rapida e quasi
impercettibile. Appena
ebbi il tempo di vederlo
fermarsi, spalancare le fauci, inghiottire
i suoi ospiti che già mi ammiccava
beffardo il fanale di coda.
Contro
la mia sosta immotivata sul binario,
e contro
la mia infantile nascente nostalgia
scoppiò
l’ira di un barbone a cui toglievo il passo:
ogni istante è partenza,
ogni istante ti appressa
la morte –mi gridò. Con un gesto
osceno
squarciò il velo che mi copriva gli occhi:
già mi si allontanava su quel treno
un prezioso frammento di futuro
(p.20)


Eleonora Bellini è nata a Belgirate sulla sponda piemontese del Lago Maggiore, poco dopo la metà del secolo scorso. Laureata in filosofia all'Università degli Studi di Milano, ha insegnato per alcuni anni nelle scuole medie ed è attualmente direttrice della Biblioteca Pubblica della Fondazione "Achille Marazza" di Borgomanero (NO). Ha pubblicato saggi, narrativa per bambini e adulti, poesia. Per un approfondimento http://utenti.lycos.it/eleonorabellini/

by Maria Pina Ciancio

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27.11.07

Il cinema di Andrej Tarkovskij (parte prima)

[pellicole -23]
Come chiedere scusa a quei pochi lettori per essermi arrogato il diritto di parlare di cinema dato che la parola è ben poca cosa rispetto al fotogramma?
Quale miglior modo di terminare un periodo di anni trascorsi a tentare di scrivere di cinema, sul cinema, dentro al cinema se non con alcuni pensieri sul mio regista preferito? Forse sarebbe il caso di tacere dinanzi al genio, ma il vizio della parola anche questa volta non mi abbandona ed allora ecco-li i miei ultimi e ridicoli pensieri sul cinema, sull’opera cinematografica incredibile, straordinaria, visionaria e meravigliosa di Andrej Tarkovskji … buona lettura anzi buona visione.


L’INFANZIA NEGATA
Andrej Tarkovskji figlio del poeta russo Arsenij Tarkovskij, nasce nel 1932 a Zavrazhe, nell’ex Unione Sovietica. Dal 1939 frequenta la scuola statale di Mosca che conclude nel 1951 con un ritardo causato sia dalla guerra che da una malattia. Dopo aver studiato pianoforte pittura e scultura alla scuola d'arte figurativa, nel 1951 si iscrive a scuola di studi orientali, poi a geologia ma è nel 1954 che inizia a studiare all'istituto cinematografico di Mosca dove prenderà la laurea nel 1960 con il cortometraggio "Il rullo compressore e il violino". La principale tematica che attraversa quasi tutti i film di Tarkovskji è il disagio: argomento che deriva dalla sua esperienza personale. Nell'esprimere questa condizione all'interno delle sue opere, Tarkovskji parte dalla figura dell'infanzia con il suo primo lungo metraggio: "L'infanzia di Ivan" del 1962, nel quale racconta la storia di un bambino costretto dalla guerra ad un'infanzia triste, a crescere prima del tempo, sullo sfondo del conflitto fra l’Armata Rossa ed i Nazisti. Il cinema di Tarkovskij è una riflessione sull'individuo, alienato dalla realtà del suo tempo ed immerso nella sua sofferenza.
Il protagonista del film, Ivan, appare sempre serio, di umore diverso da quello dei ragazzini della sua età, ma con ben chiaro nell'animo il sogno di un'infanzia normale, espressa con talento mediante l'uso di immagini rallentate nei sogni del fanciullo, che hanno come oggetto sua madre e l’infanzia negata.
Tarkovskij si ispira ad una novella di Bolomov, dal titolo "Ivan", per dirigere un'opera personalissima in cui vengono raccontate le peripezie di un ragazzo reso orfano dalla guerra e costretto a combattere. Ecco allora che, appena possibile, si addormenta e sogna di essere con la madre, nei luoghi dell'infanzia, a giocare con gli amici, a baciare la ragazza amata. Il dramma di Ivan è reso vivo e vivido nel forte contrasto tra il suo volto, sorridente e luminoso nel sogno, in contrapposizione con quello devastato durante le scene di guerra. “L’infanzia di Ivan” spezza i legami con la tradizione letteraria col melodramma e col patriottismo. La guerra, nel film assume un valore simbolico che va oltre il dato concreto. Non a caso sono completamente assenti scene di scontri bellici. Il dramma è spirituale e la devastazione interiore trova la massima espressione nel volto degli uomini.
Il dodicenne Ivan, che ha perso i genitori durante l’invasione nazista dell’Unione Sovietica diventa un prezioso collaboratore dapprima dei partigiani ed in seguito dell’esercito, impegnandosi in una serie di pericolose missioni esplorative oltre le linee. Rientrato da una missione viene accolto dagli uomini del tenente, che in un primo momento lo sospetta essere una spia nazista. In seguito alle rimostranze del ragazzo, lo mette in contatto con il capitano ed il colonnello ai quali fornisce importanti informazioni sulla dislocazione del nemico. Inviato alla scuola di guerra, Ivan riesce a fuggire e viene raggiunto dal capitano, che decide di portarlo con sé. Tornato al fronte, Ivan scompare durante una sortita. A guerra terminata il tenente scopre che il ragazzo, catturato dai tedeschi, è stato condannato a morte. La drammaticità della guerra è concentrata nella vicenda del piccolo Ivan. Infatti “L’infanzia di Ivan” è un film sulla guerra senza scene di guerra, in cui il carattere allucinatorio del racconto e delle immagini e il modo poco convenzionale di parlare delle brutture che la guerra causa sui bambini sono gli assi portanti. Il tentativo è quello di raccontare la guerra che abita dentro Ivan, situata all’interno della sua storia personale, svelata nei momenti in cui si palesa la voglia di autodistruzione, di annullamento di sé, le cui cause non possono che essere individuate nella guerra e nella perdita dei genitori in guerra. Dunque Ivan è contemporaneamente: bambino – soldato – adulto – anziano – padre – ribelle - comandante - fuggitivo – subalterno. Ed è proprio questo il grande furto operato dalla guerra ed oserei dire da qualsiasi forma di violenza: rubare il tempo, negando il futuro, la crescita. Il tema principale del film diventa dunque il capovolgimento della logica del reale, da una parte l’apparenza di una porta che si apre e che invece si chiude poco prima che venga attraversata, ossia il sogno, dall’altra la violenta ed ingiusta lotta quotidiana per la sopravvivenza, ossia la realtà della guerra. Le visioni oniriche del piccolo Ivan, colme di elementi simbolicamente materni quali ad esempio l’acqua, i frutti della terra non sono altro che piccole parentesi ancora più struggenti al confronto di un risveglio drammatico in un mondo opposto a quello sognato. In genere la guerra viene rappresentata sempre con immagini cruente non nel caso di questo assoluto capolavoro che parla di guerra tramite l’infanzia negata del giovanissimo Ivan.

L’ESULE
Nel 1965 è poi la volta di "Andrej Rublev", che racconta la storia di Rublev, famoso pittore di icone russo del 1400. In questo film viene affrontato il tema dell'artista in rapporto al suo tempo ed al disagio che questo provoca. Infatti lo stesso Tarkovskji afferma: "L'artista non è mai libero. Non vi è un'altra categoria di persone che sia meno libera degli artisti. Essi sono incatenati al proprio dono, alla propria predestinazione, che è quella di servire il proprio dono e, con ciò stesso, gli uomini". E' proprio questo concetto che Tarkovskji vuole esprimere all'interno di questo Suo capolavoro. Infatti all'inizio Rublev viene rappresentato come un artista convinto che l'arte sia l'unico fattore che nobilita l'uomo, ma nel corso della sua vita a causa anche dei fatti storici ai quali assiste, fra cui l'invasione della Russia da parte di altre popolazioni dapprima comprende come l'arte sia semplicità, poi cade nell'eccesso opposto ossia nell’allontanamento dai valori, fa poi voto di silenzio per espiare la colpa, fino a quando l'incontro con un fanciullo, figlio di un costruttore di campane, gli permette di raggiungere un equilibrio tra i suoi valori fondamentali e cioè vita, arte e religione. Dunque Rublev è un eroe schivo ed introverso, facile preda di dubbi ed esitazioni ma tenace e voglioso di comunicare e di contribuire al bene dei propri simili. Rublev si rende conto che la vera possibilità di arginare la violenza repressiva dell'autorità si trova in un legame più vero con gli altri e cerca di comunicare questo al popolo, attraverso le proprie opere. In un mondo grigio la luce delle sue icone è un invito ad un atteggiamento più spirituale. Il suggerimento non viene raccolto e l'artista decide di non parlare più, né con la voce né con la propria produzione artistica. Riprenderà a parlare solo alla fine del film, quando il coraggio di un ragazzo compie una “sorta” di miracolo. La campana del villaggio, occupato da un'orda di invasori, si spacca e viene ordinato al fonditore di campane, l'unico a conoscenza della formula che permette all'argilla con cui viene fatta la campana di resistere ai violenti rintocchi, ne costruisca una nuova. Ma costui è morto, portandosi nella tomba il segreto della formula. Molti provano a costruirne una, ma senza successo e ciò indispettisce gli invasori che riprendono a saccheggiare e seviziare la popolazione. Inaspettatamente il figlio del fonditore di campane, dichiara di essere in possesso della formula, confidatagli dal padre prima di morire, ma non intende rivelarla.
Dovrà essere lui a guidare gli operai. Quando l'opera è completata e la popolazione festeggia l'evento, il ragazzo piange disperato perché convinto che la sua formula per la costruzione della campana non funzionerà. Gli si avvicina Rublev e per la prima volta dopo anni riprende a parlare e decide di ritornare a dipingere. Siamo in Russia intorno all'inizio del 1400 davanti a una chiesa, un uomo sta tentando il volo sopra un rudimentale aerostato. Il pallone che lo deve sollevare in aria è costruito con pelli cucite. Un gruppo di persone si avventa contro coloro che stanno collaborando all'impresa, ma le funi che tengono ancorata a terra la navicella sono recise: il pallone s'innalza, suscitando contrastanti emozioni di rabbia e di meraviglia. Dopo avere sorvolato le campagne circostanti per breve tempo, si scuce e precipita nuovamente al suolo. L'estasi di questa “sorta” di volo sciamanico si dissolve. Ed è come la recisione di un cordone ombelicale che lega l'uomo alla terra: la forza di gravità. Tarkovskij sembra voler suggerire che un vincolo occulto di uguale intensità lega lui stesso e per estensione i suoi connazionali alla Madre Russia. Esiste nella storia di questo paese una "coazione a ripetere" il proprio passato sotto la forma di un regime politico di natura dispotica. Come dire che in Russia la storia fa il suo corso transitando con una certa schifosa continuità. Il travaglio artistico e culturale di Andrei Rublev sembra riflettere il percorso di maturazione ideologica di Tarkovskij, e per estensione degli intellettuali del 1900. I due Andrej sarebbero in buona sostanza accomunati dalla medesima aspirazione verso le istanze di un umanesimo in rotta di collisione con il potere costituito. Il film di Tarkovskij è interamente girato in bianco e nero, ad eccezione del finale che offre una panoramica a colori delle opere di Rublev. Dall'inizio alla fine, la pellicola di Tarkovskij si avvale di un linguaggio simbolico peculiare: la campana con la rappresentazione di San Giorgio che sconfigge il drago, ovvero il demonio. San Giorgio è il protettore dei cavalli, e questi ultimi costituiscono un elemento simbolico piuttosto frequente nel cinema di Tarkovskji, che potrebbe essere associato al duplice significato tradizionalmente attribuito loro. Da un lato al mondo infero e dall'altro alle acque celesti, alle fonti e ai fiumi. Infatti all'inizio del film, subito dopo la scena del pallone che precipita al suolo, Tarkovskij introduce l'immagine di un cavallo che si rotola nella prateria, dando l'impressione di staccarsi dalla terra e di nascere da essa, mentre alla fine si assiste alla scena di quattro cavalli che stanno pascolando sotto la pioggia in riva a un fiume. Il cavallo è anche il simbolo dello spirito del popolo russo, della sua ansia di libertà, dell'identità col nomadismo. Andrej Rublev di Tarkovskij offre così la possibilità di rileggere il passato della storia russa che sembra ripetersi anche se in nuove forme. Vecchie e nuove forme di potere politico in cui il ruolo delll’intellettuale è sempre stato quello dell’esule. Un eremita costretto a vagare nei meandri delle sue conoscenze, della sua fantasia che galoppa come i cavalli di questo meraviglioso film.

DESCENSUS AVERNO
Nel 1972 esce Solaris, un capolavoro del genere fantascienza, tratto dall'omonimo romanzo di Stanislaw Lem. In un'epoca imprecisata, uno psicologo è inviato dalla commissione scientifica sovietica sulla stazione orbitante attorno al pianeta Solaris. Ha il compito di redigere un rapporto intorno agli strani fenomeni che li si verificano e di cui sono testimoni e vittime i tre scienziati che ancora stazionano la: un fisiologo, un cibernetico ed un fisico. Il pianeta Solaris è un'entità particolare rispetto alle altre scoperte fino ad allora: ha una intelligenza diversa e insondabile. Nel momento in cui, incapaci di altre modalità di relazionarsi, gli scienziati lo hanno bombardato con dei raggi x per avere una qualche reazione, il magma pensante del pianeta ha reagito, provocando in loro crolli nervosi. La crisi vissuta dai singoli individui ha provocato una spaccatura all'interno della stessa comunità scientifica, con la formazione di due gruppi. Il primo gruppo ritiene importante e necessaria la ricerca di un contatto con la superficie pensante del pianeta; il secondo gruppo ritiene questa strada pericolosa e non scientificamente valida. Un astronauta durante un viaggio di ricognizione attorno al pianeta, è stato testimone di alcuni fatti incredibili. La testimonianza che rilascia, anziché fare chiarezza sul mistero che ruota intorno a Solaris, acuisce ancor più la frattura fra i due gruppi. Un gruppo dichiara chiuso il caso, non avendo alcun dubbio sul fatto che l’astronauta è stato preda di allucinazioni, mentre l’altro gruppo è fermamente convinto che l'astronauta è stato testimone del rappresentarsi di una intelligenza diversa. Il compito di decidere sulle sorti del pianeta viene affidato allo psicologo. Giunto sul pianeta egli trova una intelligenza diversa, estranea, che cerca di comunicare con lui attraverso la moglie, morta suicida anni prima. Egli si imbatte nell'ignoto e si trova psicologicamente impreparato ad accoglierlo. Quando mette da parte il proprio ego, si rende conto che, per comunicare col magma pensante, è lui che deve adattarsi ad una forma di vita altra. Stabilita la comunicazione, l'uomo sente pulsare in sé la medesima forza misteriosa che smuove l'immane superficie del pianeta e dalla quale è spinto a rimanere, quasi avvertendo una sua possibile rinascita su questo lontano corpo celeste. Il film si conclude con la stessa inquadratura con cui era iniziato: quella della casa paterna. Lo psicologo torna dal padre anziano con cui era in dissenso e gli si getta ai piedi, ricreando, come in un quadro, la stessa immagine del "Il figliol prodigo" di Rembrandt. La macchina da presa si allontana mostrandoci come tutta la vicenda si stia svolgendo su di un isolotto del pianeta Solaris, forse la mente stessa del protagonista. Tarkovskij crea un altro e nuovo linguaggio con Solaris. In quella grande astronave che ruota sul mare di Solaris, pianeta immerso in un oceano composto di una strana specie di materia in grado di riflettere l’anima. Non quella sublime, ma quella più vera che appartiene ad ognuno di noi, quello che i moderni psicologi chiamano il proprio io profondo. Il pianeta riflette quello che si è, non quello che si desidera essere, riflette la propria condizione morale. Esperienza disgustosa, insopportabile per chiunque, anche solo nei pensieri. Ma ecco-la qua materializzata in mostri immondi, ossessioni e atti mancati, contenuti inconsci o archetipici dotati di vita. Persone non amate, cattiverie e tutti i nostri rimorsi materializzati e dipinti su pellicola. L’unica forma di conforto pare essere per Tarkovskji il destino di abitare la terra. Solo il rimorso purifica in uno stato di quasi follia, dall’uscita dal tempo, sino al ritorno nella stanza dove il padre è tra i libri con il cane, e la pioggia che dietro il vetro bagna, e pulisce tutto. Ecco tutto ciò che forse per Tarkovskji significa abitare il proprio destino. D'altronde per Andrej Tarkovskij il cinema era la forma d’arte che usa il tempo come la sua materia prima. Quello che per la pittura è il colore, per la musica è il suono, per la poesia è la parola, per il cinema è il tempo, lo stesso tempo ed oserei dire lo stesso disagio che inghiotte la persona sensibile che si trova a confronto con se stesso. Dinanzi ad un mondo dominato dalla scienza e dalla tecnologia Tarkovskji rivendica il valore dell’arte come strumento di conoscenza della verità, o addirittura come archetipo stesso della verità. Infatti afferma il nostro cineasta: “Per mezzo dell’arte l’uomo si appropria della realtà attraverso un’esperienza soggettiva. Nella scienza la conoscenza umana del mondo procede lungo i gradini di una scala senza fine, venendo successivamente rimpiazzata da sempre nuove conoscenze su di esso che sovente si confutano a vicenda, in nome di verità oggettive particolari. La scoperta artistica, invece, nasce ogni volta come un’immagine nuova e irripetibile del mondo, come un geroglifico della verità assoluta. Essa si presenta come una rivelazione, come un desiderio appassionato e improvviso di afferrare intuitivamente tutte in una volta le leggi del mondo, la sua bellezza e il suo orrore, la sua umanità e la sua ferocia, la sua infinità e la sua limitatezza. L’artista le esprime creando l’immagine artistica che è uno strumento sui generis per cogliere l’assoluto. Per mezzo dell’immagine si mantiene la percezione dell’infinito dove esso viene espresso attraverso le limitazioni: lo spirituale attraverso il materiale, lo sconfinato grazie ai confini”.

RICORDI E SEPARAZIONI
Nel 1975 è la volta de "Lo specchio”, un immenso capolavoro. E' difficile esprimere a parole la grandezza di quest'opera: molto sinteticamente essa riporta le riflessioni del regista sulla sua vita, della quale compie un bilancio valutativo intorno ai quaranta anni. Dunque a prima vista verrebbe da dire: meta-cinema, ma in realtà “Lo specchio” è anche qualcos’altro. La trama del film si snoda intorno alla rappresentazione in parallelo del racconto dell'infanzia del protagonista e di immagini rappresentanti vicende storiche e della vita adulta del regista. Il tema principale potrebbe essere rappresentato dal destino dello stesso regista sia da bambino che da adulto, prima come spettatore, poi come protagonista. In buona sostanza questo film parla di ricordi e di separazioni. Descrivendole con immagini che non hanno una sequenza logica, egli paragona l'immagine della moglie a quella della madre, essenzialmente simili nella personalità, intrecciando questo insieme di ricordi con una poetica delicata, fatta di immagini rallentate e di numerosi primi piani. C’è una “sorta” di lentezza nella vicenda narrata, come se Tarkovskji chiedesse silenzio e concentrazione per una completa immedesimazione nelle vicende del film. Un film dove le molteplici generazioni si riflettono in un gioco di specchi, riproducendo all’infinito la medesima immagine. Lo Specchio potrebbe rappresentare la storia delle generazioni che si succedono nel corso tempo. Una storia personale che si riflette nella storia di un popolo e di una civiltà, la storia di un processo di difficile identificazione e di un “complesso materno”, che caratterizza la storia personale del regista e la storia collettiva di tutto il popolo russo. Nato durante un periodo di malattia del regista, questo capolavoro è caratterizzato da momenti di intensa riflessione sul proprio passato. Il regista vede le proprie vicende esistenziali proiettarsi nel vissuto del figlio, che è come lui costretto a subire le conseguenze della separazione dei genitori e di un’educazione fortemente condizionata dalla componente femminile materna. E’ come se Tarkovskij si abbandonasse ai ricordi della propria infanzia e di sua madre nella casa in campagna, durante lo sfollamento a causa della guerra. Diverse immagini si alternano senza alcuna sequenza logica: l’arrivo del nuovo medico del paese vicino, l’incendio di un fienile, il ritorno del padre dal fronte, il sogno della madre e della casa che sta per crollare. Ridestatosi dai ricordi, il regista chiama la madre al telefono e questa lo informa della morte di una sua cara compagna di lavoro di quand’era giovane. Riaffiora alla memoria un episodio di quando la madre lavorava nella redazione di una casa editrice: una giovane donna si affretta sotto una pioggia torrenziale per raggiungere la tipografia dove ha consegnato le bozze di una pubblicazione che dovrebbe andare in stampa.
La ragazza è affannata ed il suo arrivo in tipografia suscita un certo nervosismo. Si fa consegnare le bozze, le legge. A questo episodio ne succede un altro che ritrae gli esuli politici dalla Spagna. Immagini ricavate dalle riprese documentarie della guerra civile spagnola scorrono insieme ad altre di alcune manifestazioni di entusiasmo popolare, in occasione del lancio di palloni aerostatici in Unione Sovietica. Dopo di che il ricordo si sposta sul proprio figlio: un ragazzo prossimo all’adolescenza. Subito dopo una signora anziana con abiti ottocenteschi, compare nel soggiorno di casa ed il ragazzo è invitato a leggere da un quaderno alcune frasi sottolineate. Ed ancora la telefonata al figlio e un ricordo di guerra visto con gli occhi di ragazzo. Seguono altre immagini di repertorio: il passaggio dell’esercito sovietico attraverso un lago, uomini coperti di fango che sembrano uscire dalla terra, la presa di Berlino da parte dell’armata rossa e le foto del presunto cadavere di Hitler, poi i festeggiamenti per la fine della guerra a Mosca, il fungo della bomba atomica ad Hiroshima e Nagasaki. Tutte immagini che esprimono il punto di vista di Tarkovskji sulla storia però vista anche metaforicamente con gli occhi della Russia. Poi il ricordo doloroso della separazione dalla moglie. Poi il ricordo ritorna alla madre, a quando erano sfollati durante la guerra, e la madre si era venduta un paio di orecchini, per procurarsi da mangiare. Altri ricordi si affollano nella mente: la sorella, la nonna. E di ricordo in ricordo le immagini sfumano su un insieme di alberi al tramonto. Siamo all’epilogo di questo assoluto capolavoro, viaggio nel ricordo e nella separazione sia dello stesso Tarkovskji che anche del popolo russo ma oserei dire di tutta l’umanità.

EPILOGO
Dopo “Lo specchio” seguiranno altri tre capolavori assoluti: “Stalker” del 1979, “Nostalghja” del 1983 ed infine “Sacrificio” del 1986 uscito poco prima della Sua prematura scomparsa avvenuta a Parigi a fine Dicembre del 1986. (parte prima)
by Mariano Lizzadro

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