31.12.06

Nói Albinói di Dagur Kári: il miraggio tropicale di una mosca bianca

[pellicole -9]
In uno sperduto villaggio islandese, vive assieme alla nonna il diciassettenne Nói. La sua quotidianità è connotata da un’insofferenza crescente. Le situazioni a scuola ne sono sintomatiche: lascia in bianco il compito di matematica senza dedicargli la minima attenzione, dorme durante la lezione di francese e si fa sostituire da un registratore portatile, guadagnandosi così l’espulsione, che sarebbe una liberazione, se non fosse per il dispiacere che arreca al padre, tassista dai talenti sprecati che talvolta esagera nel bere. Nell’inerzia circostante, è il sentimento per Iris, fiore della ghiacciata radura islandese, ad attivare il desiderio di fuga, destinazione Hawaii. Fallito grottescamente un tentativo di rapina in banca, dove viene redarguito come un moccioso, Nói preleva tutti i soldi dal suo conto, compra un vestito elegante, ruba un’automobile e giunge al cospetto della spasimata. Omnia vincit amor? Questa volta no. Già maltrattata dalla grande città, Iris decide di rimanere. Al ragazzo non resta che continuare a fuggire, per essere subito acciuffato dalla polizia. Nói l’albino ha desiderato l’amore e una nuova vita in un paese lontano. Si ritroverà, dopo una repentina catastrofe, più solo che mai.
Figura e sfondo
Appiattire le mie immagini (come con un ferro da stiro) senza attenuarle.
Bresson, “Note sul cinematografo”

Premiato a Rotterdam e Angers, Nói Albinói è il primo lungometraggio di Dagur Kári (classe 1973), anche autore della sceneggiatura e della colonna sonora con gli Slowblow, band in cui suona chitarra, piano, basso elettrico, organo armonico, banjo e xilofono. Nel 1999, ha diretto il mediometraggio Lost Weekend, anch’esso trionfante in diversi festival internazionali (Brest, Monaco, Angers, Poitiers, Tel Aviv). Attualmente (dicembre 2003), Dagur Kári è impegnato a Copenaghen nella lavorazione di un film Dogma, marchio che, sempre più distante dagli specchietti per le allodole della provocazione e della verosimiglianza, raccoglie opere che si sforzano di restituire una visione più diretta ed esacerbata delle realtà che inscenano.

Nói Albinói nasce da un progetto consolidatosi negli anni. L’idea originaria di ambientare il film a Reykjavik fu accantonata perché la capitale appariva “troppo legata alla realtà”. Così Kári optò per Bolungarvik, piccolo villaggio della costa islandese nordoccidentale, chiuso tra il mare e un ghiacciaio, popolato da poco meno di mille anime. Qui sarebbe stato possibile creare un universo che, pur non esistendo, “sarebbe potuto esistere”, a metà strada tra il conosciuto e una dimensione surreale. In effetti, la Bolungarvik di Kári è una provincia dell’uomo fuori dal tempo. Gettato in questa gelata letargica prigione, in mezzo a un’umanità anchilosata, per ritrovarsi Nói deve tapparsi nella cantina sotto l’impiantito, minuscolo loculo divenuto il suo rifugio, dov’è libero di pensare e sognare le Hawaii. Il suo disagio è a fior di pelle. Sebbene si rifiuti di porgere la caviglia alle morse dell’autorità, chiunque la incarni, la sua silenziosa rivolta non si lascia incasellare nell’usurato cliché dell’adolescente ribelle. Al regista non interessa fare un bilancio sulle ragioni dell’attrito generazionale, né smantellare la psicologia del protagonista, che resta sfuggente. Niente sappiamo del suo passato. La madre è morta? andata via? quali ripercussioni ha avuto questa assenza? I tentativi definitori degli altri personaggi gli scivolano addosso. Anche l’etichetta di genio ribelle gli si scuce presto di dosso: non ha alcun seguito la dimostrazione, attraverso un test, di avere un quoziente intellettivo superiore alla media. Con un sorriso sarcastico risponde al padre che gli prospetta la possibilità di accedere, grazie alla puntualità, nel ‘tempio della disciplina’, e con una risata vanifica la propria proiezione in un futuro dabbene, nelle vesti di avvocato. Le inceppate dinamiche comunicative tra Nói e gli altri personaggi sono esponenziali di un’impasse senza evoluzione, di una slabbratura non componibile. Ancor prima, lo scollamento di Nói è reso sensibile da una soluzione di ordine formale: isolata in uno spazio il cui vuoto è mitigato da pochi elementi scenografici, la figura scivola e si arresta a ridosso di uno sfondo immoto, sia esso una natura anestetizzata dalla neve, un atlante geografico illuminato, la carta da parati a fantasia tropicale o gli animali imbalsamati del museo zoologico, innanzi ai quali le sagome in controluce di Nói e Iris si uniscono nel loro primo bacio. Il contrasto è netto. Nulla accade in profondità. Il ragazzo fa esplodere le stalattiti con la carabina della nonna, spara contro lo sfondo, quasi volesse aizzarlo, sfidarne l’imperturbabilità... Se qualcosa ne addolcisce la monocromia, come un arcobaleno, si tratta di un lirico e illusorio memento di colori e sfumature negate a un quotidiano che ha il lucore del piombo.
Sotto un profilo stilistico, Kári riduce all’essenziale gli elementi in scena, e privilegia inquadrature fisse, morbide panoramiche e angolazioni nette. Non v’è stridore tra l’azione cinematica e la staticità del quadro, tutt’altro: il movimento fluttua in una sospensione straniante, a momenti acquorea. Gli effetti di questa messa in forma non sono esauriti dall’aura tout court del film. La quiete irreale e la rarefazione che informano Nói Albinói appaiono l’emanazione dell’angosciosa, ilare, lunare alterità di Nói, quanto l’isterica ipercinesi e le violenze sintattiche del lontano e vicino Julien donkey-boy (Harmony Korine, Dogma n. 6) sono leggibili come fisiologiche ripercussioni, sul piano ritmico e grammaticale, dell’idiota e schizoide diversità del protagonista. Quando le istanze dello stile s’innervano nella condizione interiore dei materiali, l’opera principia un’esistenza che ha regole affatto proprie, non parassitaria delle convenzioni della realtà e del linguaggio.
Le immagini di Kári rifulgono in quello che Bresson, sublime smembratore della figura, definisce appiattimento senza attenuazione, prescrivendo a tal fine che i fondi “non assorbano le facce che vi applichi sopra”.. Da qui alla trasformazione dello sfondo in una nera omogenea campitura davanti alla quale le figure si stagliano come parti di un bassorilievo (è l’esempio estremo di Jarman in un cinema ancora narrativo) il passo è breve. A monte di tali procedimenti, pulsa una visione dove l’incanto dei corpi s’inscrive nella placida disillusione verso le cose del mondo.
Tragica o tragicomica, col Beckett di “Murphy”, in fondo la “vita non è che figura e sfondo” o “il sistema delle figure, davanti all’enorme confusione che gorgoglia e germoglia”, niente più che un “lungo ritorno a tentoni”.
Resistere alle livellanti seduzioni del caos e vibrare davanti alle sue disarmonie. È lo scampo della figura, per non sprofondare nell’indistinzione.

La morte a lavoro
…il tempo sta fermo, e io con esso. Tutti i piani che formulo, volano indietro direttamente su di me; se voglio sputare, sputo su di me, sul mio viso.
Kierkegaard, “Enten-Eller”

In un’intervista apparsa sul sito della Lucky Red, Dagur Kári manifesta una vera passione per le sit-com (dove mancano i soliti noiosi eroi e i personaggi affrontano gli stessi problemi in ogni episodio) e parla dei Simpson come di una fonte di ispirazione primaria. L’indicazione non è fuorviante: la fatale parabola che si compie nel film ha qualcosa in comune col catastrofismo circolare che informa gli episodi della serie ideata da Matt Groening. Alla svolta che stravolge positivamente la vita della famiglia Simpson, segue un distruttivo rovesciamento, affinché nel finale tutto ritorni com’era in principio. Nella tragicommedia di Kári, se infine il cerchio si chiude, vanificando ogni azione compiuta da Nói, niente potrà più essere com’era prima. Dopo avervi flirtato, il regista ribalta drasticamente la logica della sit-com: la serie potenziale soccombe con la totale distruzione della quotidianità del protagonista. Il “ritorno a tentoni” di Nói è agghiacciato da un azzerante disastro, forse una fulminante nemesi, che arriva ex abrupto, rombo di tuono fuoricampo, d’un botto. Il frastuono e lo schermo nero che perturbano la rappresentazione sono effetti della valanga che ha travolto Iris, Oskar, il padre e la nonna di Nói, come scopriremo più avanti, assieme al superstite. Prima l’effetto, poi la causa, è un altro imperativo bressoniano.

Appena entrato nel negozio di Oskar, Nói trova l’amico nel vivo di una lettura: “Sposati, te ne pentirai; non sposarti, te ne pentirai anche… Ridi delle follie del mondo, te ne pentirai; piangi su di esse, te ne pentirai ancora… Impiccati, te ne pentirai; non impiccarti, te ne pentirai anche… Questa, miei signori, è la somma della scienza della vita”. Nói si dimostra incuriosito dal brano e chiede il libro a Oskar, il quale non fa regali e preferisce cestinarlo. Il passo è espunto dai “Diapsalmata” di “Enten-Eller” (1843), dove Kierkegaard accantona ogni categoria per denunciare la radicale miseria del mondo e snudare le stigmate del proprio male di vivere. Verrebbe spontaneo liquidare la citazione del pensatore danese come una caustica boutade (lo sprezzante Oskar riduce il libro alle stronzate di uno il cui nome significa cimitero). Tuttavia, a ben vedere, se volessimo considerare Nói Albinói alla stregua di un crudele bildungsroman, il bottino esistenziale del giovane uomo sarebbe proprio l’appercezione della maligna insensatezza cosmica che Kierkegaard prefigura all’origine di qualsiasi aut aut.

“Sulla mia intima essenza pesa un affanno, un’angoscia che presente un terremoto” (“Diapsalmata”).

La vis comica del film possiede a tratti il sapore dell’ironica indulgenza di Kaurismaki (quello degli asciutti Tatjana e La fiammiferaia) verso le sue creature, ma è anche perturbata da sfumature macabre e contrappunti beffardi. Dietro il sorriso fa capolino un ghigno. Emblematica è l’esilarante scena in cui Nói rovescia maldestramente un capiente bacile pieno di sangue di maiale sul padre e la nonna, che restano seduti e attoniti nel campo medio inondato di rosso acceso, come impietriti da un grottesco assaggio di rigor mortis. Diversi punti dell’ordito, meticolosamente cadenzati, sono forieri della disgrazia in agguato. Espulso da scuola, Nói viene assunto dal prete come becchino, impiegato a scavare nel nero, sotto la coltre immacolata che avvolge il villaggio. In occasione del suo diciassettesimo compleanno, la nonna gli prepara una torta addobbata come un isolotto tropicale e gli regala un visore stereoscopico, che ha la forma di una polaroid. In soggettiva, vediamo due diapositive: un panciuto indigeno delle Hawaii e la classica veduta da cartolina completa di mare azzurro, cielo terso, sabbia bianca e palme a volontà. La coppia di immagini, che affiora due volte, rappresenta lo spiraglio onirico che dovrebbe bilanciare l’insistito reiterarsi del campo lungo del fiordo, che incombe minaccioso sul destino di Nói. Ma il regista smussa prontamente la capacità contrastiva delle visioni: la prima emersione stacca sull’inquadratura di un coniglio in gabbia, la seconda è seguita dall’altrettanto metaforico dettaglio di una nera mosca che adombra una palma della carta da parati. Nella medesima scena, la stessa mosca corre sul corpo di Nói, dal quale sembra non volersi staccare, disinvolta come su una carcassa. C’è soltanto morte intorno a Nói. È quanto predice l’oracolo. Eppure dal veggente era giunto speranzoso di ascoltare la ben augurante previsione di rito: un incontro decisivo, un guadagno inaspettato e un lungo viaggio. La brutalità del responso lo fa vacillare. Il campo medio in cui Nói sta seduto di fronte all’indovino e dà le spalle all’obiettivo è inquadrato attraverso una finestra. La superficie di vetro delimitante lo spazio riempito dal ragazzo è sporca, opacizzata da un alone che corrompe la nitidezza e sdefinisce i contorni della figura. La morte entra in quadro come potenza distorcente, sfigurante. Quando la sciagura intrappola Nói nella sua tana, il volto è ripreso di scorcio, smangiato da un chiaroscuro che vira nel nero con l’affievolirsi della fiammella dell’accendino. Prima che la luce fugga, l’occhio di Nói l’albino si sgrana contro le tenebre, come quello di Julien il ragazzo asino, rintanatosi sotto le coperte per cullare il cadavere del figlio neonato. Posto in salvo, Nói apprende, per voce del prete, che tutti i suoi cari sono morti. In primo piano c’è il suo cranio nudo reclinato in avanti. Gli occhi sono scomparsi dentro orbite riempite dall’ombra.

“Per riuscire mi è mancato un colpo d’ala…” (Sá-Carneiro, “Dispersão”)

L’ultima immagine del film è lo sfondo senza figura o divenuto figura della cartolina tropicale. Il selvaggio questa volta non ricompare. La diapositiva si anima. Il vento scuote le palme alla velocità di 24 fotogrammi al secondo. Non possiamo dire se si tratti di una brezza rigenerante o dell’ultima beffa di un ordine sadico. Certo è che adesso nulla più trattiene Nói. Donna, famiglia, casa, tutto distrutto. Senza vincoli, solo come un angelo, sarebbe libero di volare via, lontano. La sua ambigua ultima soggettiva non esclude tale volontà. Orfano tra le macerie, non ha perso la forza di distogliere lo sguardo dall’orrore circostante e volgerlo altrove, verso il caldo luogo della mente dove svapora il ghiaccio che screpola il cuore.

by Jonny Costantino

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19.12.06

Il senso del tempo e della storia ne' "L'arca russa" di Alexander Sokurov.

[Pellicole -8]
(al mio caro amico Mauro Savino)
"Questo film è una fantasia. Parla di qualcosa che non è mai accaduto ma che avremmo desiderato che accadesse. Sono stanco del montaggio. Non voglio fare esperimenti con il tempo. Voglio portare sullo schermo il tempo reale. Non bisogna avere paura dello scorrere del tempo" (Alexander Sokurov).
In questa citazione, che è anche una dichiarazione di poetica, c’è condensata tutta la storia dell’Arca russa, film del 2003 del regista e cineasta Alexander Sokurov.
Un film molto bello, a mulinello e pieno di nebbia che con un unico, straniante piano sequenza proietta noi spettatori all’interno d’un mondo passato: secoli di storia rappresentati attraverso l’arte. "L’arca russa" è il museo Hermitage di San Pietroburgo, dove un regista contemporaneo e un diplomatico francese dell’Ottocento compiono un viaggio attraverso il tempo, incontrando dentro stanze e corridoi, personaggi famosi, fra balli e fasti di corte e segni di un’imminente tragedia. "L’arca russa" a metà tra un dipinto e un romanzo, è un film di mille personaggi, mille comparse che si aggirano nelle sfarzose e meravigliose sale dell’Hermitage di San Pietroburgo. In un’ora e quaranta c’è condensata la storia russa degli ultimi tre secoli. Fra un dipinto e una statua prendono vita Pietro il Grande, Caterina II ed alcuni zar.
Da una sala all’altra approdiamo a un ballo affollato e travolgente fino ad arrivare al gran finale: siamo nel 1913 e l’esodo dei fantasmi dal palazzo diventa una imponente metafora dell’uscita dalla storia. Nel suo aspetto di grande sogno il film si apre con un’immagine nera resa viva da una voce fuori campo, attrice principale e invisibile del film, che dice: “Apro gli occhi e non vedo niente. Nessuna finestra, nessuna porta. Ricordo che è accaduta una disgrazia e tutti si mettevano in salvo come potevano”.
Poi come per magia, in un’atmosfera onirica, ci troviamo dentro l’Hermitage.
A condurci in questo viaggio sono due personaggi: il primo, un uomo contemporaneo, presente solo attraverso la voce che parla e dialoga col secondo personaggio, un marchese dell’Ottocento, anche lui catapultato in una epoca non sua. Sembrano Virgilio e Dante nel ventre della storia russa, che stanno facendo un viaggio, e noi con loro, attraverso le epoche entrando in contatto con tutte le figure e gli accadimenti più importanti della storia russa. Pietro il Grande e Caterina II, con la famiglia dello Zar e con il direttore d’orchestra Valery Gergiev. Ogni stanza un’epoca, un evento e soprattutto una galleria di opere d’arte sublimi e meravigliose. La telecamera ondeggia morbida di sala in sala, indugia sui quadri e con essi coincide, immagine su immagine. L’Arca russa di Sokurov è un film elogio dell’arte ma anche una critica della storia. Infatti eventi umani, si susseguono in un continum fatto di crudeltà e armonia, di sangue e poesia. Come se l’uomo fosse la materia della storia e l’artista una sorta di tramite che riesce a far vedere quello che c’è ma non si percepisce. Il marchese, che sposa il punto di vista dell’occidentale europeo contro il regista russo e contemporaneo. "L’arca russa" è anche una metafora della storia umana scandita dalla violenza a cui il regista però si oppone, infatti ad un certo punto, vedendo dei soldati, dice: “Mi piace lo splendore delle divise ma non mi piacciono i militari”. Dunque due compagni di viaggio: un regista invisibile e un diplomatico francese dell’ Ottocento e il loro viaggio nel tempo, mentre discutono del loro rapporto con la Russia e del rapporto di questo Paese con il proprio passato e con l’Europa contemporanea. Alla fine, dopo lo sfollamento in massa dal ballo, le nebbie sull’acqua della Neva e le parole sospirate dell’autore: “Tutti conoscono il futuro, ma nessuno conosce il passato. Siamo destinati a navigare eternamente, a vivere eternamente”. In effetti questo film sembra un mosaico i cui vari pezzi compongono un disegno sull’identità storica russa. Un mosaico in forma di percorso vissuto attraverso gli occhi del regista, nello splendido scenario del Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo, fra le opere di Rembrandt, Leonardo, Raffaello, Tintoretto, El Greco e di molti altri, ammirate da visitatori del passato e contemporanei. Il museo diventa emblema della memoria russa, deposito e depositario di una cultura dimenticata, sopravvissuta a tutti i transiti della storia. Il film è incentrato sul confronto tra il personaggio francese, che interpreta opere d’arte e vicende storiche con gli occhi dell’occidente, e questa voce – emblema del regista russo in un continuo confronto ironico e critico. La storia russa viene raccontata a passo di danza, i cui ballerini sono di volta in volta Pietro il Grande e Caterina II, Puskin, gli zar nell’imminenza della rivoluzione d’ottobre e le migliaia di comparse del film. Gli intrusi siamo noi spettatori del film. D’un tratto, il diplomatico francese apre una porta, “non entri lì dentro” avverte vanamente la voce – il regista: appare una stanza povera e disadorna, zeppa di bare accatastate in maniera disordinata, che rappresenta l’assedio nazista e forse anche la violenza dello stalinismo. Le immagini sono un continuo scivolare, nascondere e svelare, in cui lo spettatore diventa protagonista e osservatore di tutte queste vicende. "L’Arca russa" è dunque proprio l’Hermitage, un luogo stabile ma che ci trasporta, come in un viaggio dantesco, verso gli inferi della storia, in cui Virgilio diventa proprio la telecamera per cui questo film è anche una metafora del cinema come strumento di conoscenza. Il diplomatico ottocentesco rappresenta una sorta di Dante moderno. I corridoi, le scale, i saloni dello splendido edificio diventano teatro della storia in cui un occhio inquieto passa dal buio e dall’oblio ed inizia un viaggio nella storia. Luogo in cui il museo metafora del passato e il teatro metafora del presente si incontrano, "l’Arca russa" raccoglie i cocci di trecento anni di storia russa, memoria della deriva di un mondo passato. Canto mesto e tuttavia dolcissimo nel suo struggimento per un qualcosa che non c’è più, un qualcosa che è divenuto immagine e dunque affidato al cinema. Dunque un film dallo stile elegiaco che canta la bellezza delle cose e ne intona una nenia funebre per la loro irrimediabile perdita. "L’arca russa" con l’Hermitage, come Shining con l’Overlook Hotel o come Solaris con la base orbitante, diventa un’allegoria del cinema come predominio delle immagini a cui noi apparteniamo come esseri vedenti, in quanto spettatori mnemonici, un film-viaggio nella storia, che si dona all’immortalità dei capolavori che entrano di diritto nella storia del cinema.
by Mariano Lizzadro

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7.12.06

Lo sguardo poetico di Kiarostami sulla quotidianità delle cose

[Pellicole -7]
"Roads" di Abbas Kiarostami è un fantastico racconto di immagini in movimento. Cento e più fotografie di un eccezionale bianco/nero, scattate in Iran, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta. Incentrate sul tema estetico della strada, ma prima di tutto e soprattutto sul concetto metaforico che ne deriva. Le fotografie di "Roads" esprimono con estrema semplicità la poetica del regista, pittore, fotografo iraniano.
Accompagnate alternativamente da una melodia ora lieve e leggera, ora triste, tenebrosa e cupa e dalla voce di Kiarostami che si racconta in farsi(una lingua pastosa e dolce), ogni fotogramma dona allo spettatore un'emozione diversa: dall'incanto alla grazia, dalla serenità alla paura.
Gli orizzonti ampi della Persia, le strade ondulate, le nuvole barocche, le sinuosità collinari, le asperità, ricordano e rimandano al percorso dell'esistenza umana.
Lo sguardo sulla sua terra d'origine è puro. Kiarostami non ha pretese. Osserva la natura, i paesaggi, i boschi, la neve, e ciò che naturalmente e semplicemente accade, senza alcuna forzatura umana. Per una ragione emozionale assai difficile da spiegare "Roads" sposta in certi istanti l'attenzione sul vento e sulla luce.
Sul vento, che soffia quando e dove vuole. Sulla luce che illumina ogni cosa.
Vento e luce, compagni di viaggio nella vita di ogni uomo.
by Francesca Zito

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4.12.06

Sul cinema di David Lynch

[pellicole -5]
(a Silvio “Lynch” Giordano)
Appunti sparsi su foglietti gettati da qualche parte, abbozzi di poesie, aborti di recensioni, considerazioni accumulate nel corso del tempo su alcuni film di David Lynch, sul cinema di David Lynch. Dedicato al mio caro amico Silvio Giordano. Buona lettura, anzi buona visione!
Con occhio di lince, linciaggio un orecchio, l’orrore allo specchio. Irreale visione surreale, reiterato e sovvertito il normale ed il reale. Indaga - scruta - osserva – amputa, corpi - occhi - storie, rallentata - onirica - memoria. Allora come chiamarlo il cinema di David Lynch se non come unico piano sequenza di geniale lucida e bonaria violenza? Il cinema come occhio. Organo visivo che esplora deformità. Occhio e neurofibromatosi. Cinema tumore che deforma il cranio in maniera orrenda. Cinema freak esibito in circhi ambulanti. Cinema baraccone. Cinema deformante, delle brutture nell’Inghilterra Vittoriana. Cinema come poesia. Cinema degenerativo mostruosamente deforme. Cinema che mostra mostri in un circo come attrazione. Cinema- uomo- elefante. Cinema della deformità mostrata allo spettatore, della condanna a vivere dentro una gabbia. Cinema che si fa voce ritirata all’interno del corpo, rantolo da bestia malata. Cinema automa inerte e spaventoso, che provoca paura, disgusto e morbosa curiosità. Cinema come invocazione della morte. Cinema delle lacrime che salvano. Cinema dietro la superficie ordinaria delle cose e della realtà che nasconde altro. Cinema di incubi e mostri che fanno capolino da scene di vita quotidiana. Cinema rivelazione del male in un alternarsi continuo di luce – ombra – veglia - sogno. Cinema del grido: “io sono un uomo”. Cinema buio – fumoso - asfittico - allucinato - allucinante. Cinema descrizione di lezzi e scherni verso l’uomo bestia. Cinema che mostra l'orrore e la mostruosità in tutta la sua crudezza per poi squarciare il velo dell'apparenza e mostrarci la natura nascosta di un animo gentile e delicato. Cinema dalle sembianze mostruose, il cranio sproporzionato e ricoperto di protuberanze. Cinema - uomo – bestia – spettacolo.. Cinema corpo ricoperto di escrescenze tumorali. Cinema voce simile ad un grugnito animale. Cinema che impedisce di dormire sdraiati sui letti per evitare il soffocamento. Cinema del braccio più lungo dell'altro. Cinema come descrizione del male che impedisce l’accettazione della diversità-deformità. Cinema che squarcia il velo dell’apparenza e si dona all’eternità delle grandi opere umane.
Cinema di fantascienza. Cinema mano che entra nelle viscere. Cinema dei volti deturpati, degli aghi che s’infilano nella pelle. Cinema viaggio e siccità. Cinema che si espande in gocce dilatate sullo schermo. Cinema degli oppressi che abitano l’universo. Cinema costretto a indossare tute speciali, a rimanere ingabbiato in quei contenitori di corpi umani, studiati affinché possano venire riciclati i liquidi del corpo. Cinema di altri esseri che produce piaghe e bubboni. Cinema disgustoso, crudele, sorprendente e depistante. Cinema anno 10991. Cinema visionario – estraniante – fantascientifico. Cinema come proposizione e riproposizione del medioevo in un futuro lontano. Cinema come descrizione di leggi amorali di una civiltà ferma in un pantano. Cinema – spezia – melange - droga - realizzazione – dell’inespresso potenziale umano. Cinema come forza definitiva. Cinema come macchina, illimitata ma fatalmente limitata e schiava del tempo. Cinema come epopea, viaggio intergalattico nei deserti spaziali. Cinema – verme – che s’insinua nella fantasia. Cinema voce psicologica-mente fuoricampo. Cinema come sonda sonar che esplora l’animo. Cinema come conquista di un luogo altro, eterna lotta fra bene e male.
Cinema, orecchio mozzato, in un campo. Cinema - entomologia – insetti. Cinema che va in profondità, in un orecchio. Cinema - visione - voyeur – armadio. Cinema come doppio - doppia realtà - doppi personaggi. Cinema - canzoni – corollario – foce e fonte. Cinema violenza e sadismo. Cinema dall’alto, occhio che si avvicina per scrutare dettagli minimi ed inquietanti. Cinema incubo repellente che si trasforma in sogno. Cinema pennelli su pellicola. Cinema che sussurra: la realtà non è una linea retta. Cinema idillio iniziale apparente di campi ingiallati in un tardo pomeriggio d’estate. Cinema come specchio che riflette uno spicchio, frammento che compone l’incubo, incubo visionario, morboso e macabro. Cinema incubo attraversabile lungo contorti sentieri nascosti. Cinema sentiero che si complica, che invade l’anima, che mette radici. Cinema - tunnel - violenza - sesso – sadomasochismo. Cinema incubo che diventa altro incubo, incubo nell’incubo, incubo al quadrato. Cinema misterioso. Cinema dicotomia fra apparenza e realtà. Cinema che si dipana in storie segnate dalla violenza. Cinema mai ovvio, complessa vicenda umana, intrisa di sangue male e amore. Cinema come incubo collettivo, labirintica visione ossessiva. Cinema come allegoria della sola e unica salvezza degli esseri umani: l’incubo.
Cinema – viaggio – strampalato – lungo le arterie americane. Cinema come viaggio mentale, road movie verso il nulla. Cinema del viaggio illusorio. Cinema, controcampo e flashback, che frantuma la struttura narrativa. Cinema che rompe le aspettative, che recide radici. Cinema come sordida musica cupa. Cinema accentuazione di contrasti. Cinema cadenzato frammentario discontinuo. Cinema che schiaccia l’occhio alle favole, che da un pugno nell’occhio alle soap-opera. Cinema brusco e intimo. Cinema bambino, che guarda con gli occhi di un bambino verso il mondo. Cinema – protesi – terrore degli scarafaggi – scorticamento – nervi scoperti. Cinema ubriaco e dispotico. Cinema ossessionato dal dentro, dai corpi vivisezionati, sotto la pelle. Cinema come tentativo di rivelare l'essenza stessa del reale, di trovare la rivelazione al di sotto dell'apparenza e della superficie delle cose. Cinema della normalità straniata e deformata fino a giungere al cuore selvaggio delle cose. Cinema – estremizzazione – ridondanza. Cinema a tasselli. Cinema – ambiguità in normalità. Cinema di storie osservate con sguardo allucinato, rallentate ed intorpidite. Cinema come lente deformata che svela e rivela un nuovo senso del reale, un amore ritrovato all’inferno.Cinema di fari nella notte che corrono verso una casa che cambia a guardarla da angoli visuali diversi. Cinema – citofono – videocassette – sassofono – chiave inglese. Cinema come scambio, cambio, confusione. Cinema - allucinazione – incubo. Cinema come claustrofobia, soffocante, che si avvolge su se stesso. Cinema come connessione, associazione libera, di un immaginario sospeso fra incubo, sogno e ossessione. Cinema – zona oscura – vite parallele - stessa strada stesso tempo - ma ciò nonostante diversissime fra loro. Cinema di intrecci, di doppi. Cinema, meta-cinema, violenza con la quale l’immagine fissata dalla camera si sovrappone all’immaginario. Cinema come sovrapposizione di realtà filmiche. Cinema puro, distillato, alcolico, terrificante, percorso da sentieri sconosciuti, ognuno avvolto da una propria luce misteriosa che gioca a dissolversi fino a tramutarsi in oscurità. Cinema che presta l’orecchio ai dettagli sonori minimi: squilla un telefono, i passi, rumori da sottoterra. Cinema come seduzione, come trasformazione, come imprigionamento. Cinema – Processo – Metamorfosi. Cinema in cui il tempo è alterato, in un gioco di rimandi tra presente e passato, che inizia e finisce con la stessa immagine. Cinema – circolarità. Il cinema, un’autostrada perduta che finisce per essere quella ritrovata della coscienza degli spettatori, il cinema di David Lynch.
by Mariano Lizzadro

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