29.10.07

Jack London, la vita di strada, i viaggi, le avventure vagabonde di uno dei più grandi scrittori della letteratura americana

[letteratura -6]
“Di tutto, questo è rimasto: l'aver lottato e l’aver conosciuto. Questo sarà il guadagno del gioco, anche se sarà perso l'oro della posta."
Jack London è uno dei miei scrittori preferiti. E’ forse il solo scrittore che io consideri quasi come un “compagno” ed un “amico”, oltre che un maestro di vita. Jack London è uno dei grandi nomi della letteratura americana, ed uno degli autori più letti a livello mondiale. La critica accademica non gli ha concesso mai una grande considerazione. Ma si sa, la critica ufficiale è stata, ed è a volte tuttora, restia ad accogliere gli autori dalla vita tumultuosa, le cui vicissitudini si ripercuotono direttamente nelle pagine dei loro libri, gli scrittori innovativi e quindi (perché no?), anche contraddittori. Basti pensare che Melville, uno degli autori ormai considerati tra i pilastri della narrativa americana, con il suo capolavoro che è Moby Dick, si affermò come figura letteraria importante solo molto tempo dopo la sua morte, avvenuta in mezzo alla povertà ed all’incomprensione più totale. L’accostamento a Melville non è casuale, perché, se ne dispiacciano o no i critici ufficiali, Jack London appartiene a quel genere di narrativa che ha fatto grande la letteratura americana. E’ quella letteratura che ha la sua dimensione più importante nel “vissuto”, nell’irrequietezza e nella spinta alla ricerca di se stessi. E’ la vita vissuta che fornisce la materia sulla quale far derivare l’ispirazione letteraria. La vita di questi autori è però anche una vita un po’ particolare. La letteratura di questi scrittori è incentrata cioè su dure esperienze esistenziali, sulla vita di strada, a contatto con reietti e avventurieri, su viaggi ed avventure in luoghi selvaggi. Jack London appartiene alla schiera di questi autori e merita un posto d’onore nell’olimpo dei grandi scrittori americani. Come scrisse Andrew Sinclair, biografo di Jack London:

“Quelli che seguirono il suo modo drammatico di vita e la sua maniera di scrivere nervosa e disadorna, come Ernest Emingway, dimenticarono di attribuirgli il merito d’avere inventato uno stile che aveva più contatti con l’Alaska di London che con la Parigi di Gertrude Stein. Jack ricevette anche pochi ringraziamenti da John Dos Passos o da Steinbeck o Kerouac per avere precorso il romanzo ‘vagabondo’ con The Road. Norman Mailer non ha mai lodato lo scrittore che, con estrema immediatezza, ha preso il pugilato come argomento di alcune delle sue cose di giornalista e scrittore”.

Jack London comincia già da ragazzo a fare vita di strada. Giovanissimo si imbarca in un battello diventando pirata di ostriche. Parteciperà alla caccia alla foca nel mare di Bering. Subito dopo si unirà ad un esercito di disoccupati diretti a Washington , facendo vita da vagabondo tra vagoni di treni, strade di campagna e una prigione (queste esperienze saranno raccolte nel volume “La Strada”). Comincia giovanissimo a divorare libri di ogni genere. Saranno soprattutto i saggi che leggerà ad influenzare non poco la sua ispirazione letteraria: tra i suoi autori preferiti figureranno Darwin, Marx, Nietzche e Spencer, autori che diventeranno la fonte delle sue ispirazioni letterarie. Un’esperienza di vita decisiva per la sua produzione letteraria sarà quella della corsa all’oro nel Klondide, tra il 1897 e il 1898. In uno dei suoi più celebri racconti scriverà: “Di tutto, questo è rimasto: l’aver lottato e l’aver conosciuto. Questo sarà il guadagno del gioco, anche se sarà perso l’oro della posta”. Va detto che questa frase stupenda riassume un po’ tutta la personalità del nostro formidabile autore, che ha espresso bene nella sua opera l’amore per la vita, lo slancio dell’individuo che non si arrende, che vuole conoscere e lottare, che vuole confrontarsi con la realtà, sia che si trovi alle prese con il deserto di ghiaccio del Klondide, con le onde tempestose dell’oceano e sia che si trovi nei bassifondi di una metropoli come la Londra di inizio Novecento. Dal Klondide London tornò con pochi grammi d’oro; altro era però il tesoro che egli portò con sé: l’enorme mole di esperienze personali, vissute ai “limiti”, a contatto con la wilderness del Grande Nord e con il bagaglio delle storie che circolavano tra i cercatori d’oro, storie violente, estreme e affascinanti, nelle quali il coraggio, i difetti e le virtù umane venivano duramente sollecitate. Forse è proprio nei racconti del Grande Nord, che Jack London ha dato la migliore prova di sé, con riferimento agli esercizi di stile: “Farsi un Fuoco” , per primo, e poi
“L’amore per la vita”, “Batard”, “Perdere la faccia”, “Il silenzio bianco”, “In un paese lontano”, “La legge della vita”, “L’imprevisto” e tanti altri, restano i suoi piccoli capolavori. In questi racconti che si leggono tutti d’un fiato, dall’intreccio e dal ritmo avvincente e coinvolgente, vediamo aggirarsi uomini e cani in ambienti off-limits , alle prese con territori ostili, con una natura che mette alla prova l’individuo o gli individui, facendo cadere molte loro illusioni, consuetudini e valori che essi si portano con la civiltà. Siano essi uomini, cani o lupi, tutti sono decisi a lottare per quell’ “amore della vita” che alla fine forse risulta essere uno dei nodi, oltre che letterari, anche esistenziali nell’opera di Jack London (potremmo parlare quasi di vitalismo in proposito). Il confronto con la natura selvaggia, con il Wild, con i suoi pericoli e le sue avversità è sicuramente uno dei temi centrali in molti racconti e romanzi di Jack London. In pochi altri scrittori si ritrova una tale forza ed incisività narrativa nella rappresentazione del mondo selvaggio. Un fatto importante da notare è che Jack London non ha mai proposto però una visione romantica della natura. La tentazione di cascare nel romanticismo è stata ed è sempre forte per gli scrittori che si confrontano con la bellezza delle grandi distese selvagge. L’armonica bellezza della natura ovviamente emerge a volte nelle sue storie, ma quasi fuggevolmente, come in questa descrizione presente ne “Il canyon tutto d’oro”:
“Ogni cosa si muoveva fluttuando nel cuore del canyon. I raggi del sole e le farfalle fluttuavano avanti e indietro tra gli alberi. Il ronzio delle api e il mormorio del torrente erano un fluttuare di suoni. E il fluttuare dei suoni e il fluttuare dei colori parevano intrecciarsi insieme per creare una trama impalpabile che non era lo spirito del luogo. Era lo spirito di una pace che non era quella della morte, ma di una vita dal pulsare lieve, di una calma che non era silenzio, di un movimento che era azione, di una serenità palpitante di energia, senza la violenza della lotta e della fatica. Lo spirito del luogo era lo spirito della pace dei vivi reso sonnolento dal placido benessere della prosperità, e non disturbato da voci di guerre lontane”.

Ma la natura è, nell’opera di London, estremamente conflittuale. Nella wilderness vale la lotta violenta per la sopravvivenza, una lotta feroce e senza remore nella quale l’uomo è lasciato in balia del caso e della completa indifferenza della natura. La visione conflittualista di Jack London non è però confinata solo alla natura, ma alla società intera, definita essenzialmente dalla lotta di classe. Con ciò va ribadito che, a differenza di alcuni giudizi stereotipati che si leggono sulla sua opera (magari formulati avendo in realtà letto poco e superficialmente di essa), il darwinismo sociale è estraneo all’opera di London; per egli la lotta per la sopravvivenza e la supremazia del più forte non si trasferiscono meccanicamente dalla natura alla società. La lotta per la sopravvivenza ha come corollario in società la lotta di classe, la lotta condotta dagli emarginati per uscire da quello che egli chiamava “l’abisso sociale”, cioè l’esclusione e l’emarginazione delle classi subalterne, alle quali Jack apparteneva. Nei suoi romanzi e racconti non esistono ambiguità in proposito. Sicuramente egli avrà potuto, di tanto in tanto, su articoli di carattere saggistico, fare affermazioni contraddittorie; ma il nostro Jack era uno scrittore, non un filosofo o un teorico del socialismo, ed è la sua opera letteraria che va valutata. Marx e Nietzche sono stati ugualmente importanti nel dargli la verve creativa; che poi siano incompatibili in un sistema filosofico coerente, be’, questo è un altro discorso. La wilderness sarà anche la protagonista dei suoi due romanzi più conosciuti: “Zanna Bianca” e “Il Richiamo della Foresta”. In questi romanzi si immedesimerà fortemente con cani e lupi e ripercorrerà attraverso le vicende di Zanna Bianca e del cane Buck la tentazione dell’avvicinamento o (di contro) dell’uscita dalla civiltà dell’uomo. Il fatto che egli riesca addirittura a “sentire” ciò che può provare un lupo, la dice lunga sul suo talento di scrittore. Come afferma lo scrittore Lagioia:
“Altra caratteristica di Jack London che tutti gli scrittori venuti dopo di lui non possono fare a meno di invidiare, è la strabiliante capacità mimetica: la facoltà, vale a dire, di mettere credibilmente in scena qualunque tipo di personaggio. Probabilmente sarà stato aiutato dal suo ricchissimo bagaglio di esperienze e da una capacità di osservazione non comune. Ma esperienza e occhio buono non servono a molto se non vengono messi a servizio di un talento quasi demoniaco. Jack London è capace di calarsi con una sconcertante facilità nei panni di proletari, aristocratici, operai, malati di mente, bambini, vecchi, madri, assassini, poliziotti, rivoluzionari, maggiordomi, giornalisti … senza tra l’altro limitare questa facoltà al solo genere umano: quando dalle sue pagine a un certo punto salta fuori un lupo, ci sembra stranamente di essere nella testa del lupo, di pensare insieme a lui; la stessa cosa per orsi, cani, caribù fino ad attraversare una soglia piuttosto inquietante – quella tra organico e inorganico – oltre la quale London può convincerci di essere capace (e noi, leggendo, capaci insieme a lui) di incarnare lo spirito, il senso (il pensiero?) di una distesa di neve, di un ruscello, di una roccia, di un cadavere, di una locomotiva. Ci vuole un talento quasi demoniaco, dicevo, perché la sensazione è che London possegga letteralmente ogni cosa, vivente e non vivente, che gli capita a tiro.”

Nelle vicende di questi due romanzi tornano cari a Jack London i temi classici presenti anche nei racconti del Grande Nord: l’adattamento all’ambiente e la lotta per la sopravvivenza e la supremazia, il confronto con la natura e il mito della forza. Eccezionale è la prima parte di “ Zanna Bianca”. I capitoli dedicati al lupetto che esce dalla tana trovandosi davanti ad un mondo del tutto nuovo e sconosciuto per lui, con le sue forze e i suoi elementi naturali, racchiudono a mio avviso alcune delle pagine più belle di London. Un motivo che sarà presente anche in altri libri si riferisce alla . . . ricerca dell’amore. Zanna Bianca e Buck, dopo aver vissuto sulla propria pelle le crudeltà di avventurieri senza scrupoli, che li utilizzano come cani da lavoro e da combattimento, scoprono, alla fine, il sentimento di solito umano, ma in questo caso anche animale, dell’amore, che essi ritrovano nell’incontro con un padrone buono (il “dio buono”). I due animali, a metà tra lupi e cani, dall’identità problematica (come è stata del resto, quella di Jack London) faranno il percorso inverso. Buck, dalla civiltà simboleggiata da una villa in California arriverà, alla fine del romanzo, a vagare con i lupi: a ritrovare, seguendo i suoi istinti primordiali, l’antico stato selvaggio; Zanna Bianca verrà invece addomesticato come un cane, e si ritroverà anch’egli in una villa immersa nel sole della California, ma alla fine del libro, alla conclusione del suo percorso di avvicinamento all’uomo. A scoprire con ardente passionalità il sentimento dell’amore sarà anche Martin Eden, il protagonista dell’omonimo romanzo autobiografico di Jack. Per amore di una ragazza dell’alta borghesia, Martin si impegnerà con tutte le sue forze per uscire dall’emarginazione sociale e dal mondo della strada, trovando nei libri e nella vocazione dello scrittore la più grande forza di emancipazione personale. La perdita dell’amore con l’abbandono della ragazza, che mai riuscirà a capire un ragazzo del proletariato come lui (infarcita com’è di pregiudizi piccolo-borghesi) e la crisi di identità che sopravverrà con il suo successo come scrittore, ormai distaccato sia dal popolo che dalla borghesia, emarginato da una società che gli appare ormai come estranea, porteranno Martin Eden -Jack London al suicidio. Secondo Amoruso:
“ . . . quella di Martin Eden è una classica storia americana di successo e di fallimento da romanzo naturalista, non dissimile da quelle che scriveva un romanziere come Frank Norris (McTeague,1899). London ne accentua i tratti deterministici, e in particolare i nessi paradossali di una ironia tragica, grazie ai quali l’ascesa sociale del protagonista è narrata come una progressiva regressione autodistruttiva, verso una condizione di deserta solitudine, da animale in trappola, dentro rapporti sociali ipocriti e menzogneri che lo stritolano e ne inceneriscono ogni futuro possibile.Tutte le varie, accelerate tappe di educazione alla realtà sono in realtà un riavvolgersi della sua vita all’indietro, un finto progredire che, in realtà, mette a nudo passo dopo passo la giungla spietata, l’arida, immutata terra desolata del suo presente, perché in esso nessun futuro, nessun affrancamento e nessuna utopia sono davvero possibili.”

Martin Eden è anche la storia di una vocazione letteraria. La storia di un proletario, un robusto ragazzo di strada, che scopre la letteratura e i nuovi orizzonti che i libri possono farci dischiudere. E’ anche il racconto di un uomo estremamente sensibile che cerca di uscire dall’ “abisso sociale”, con le proprie forze, sia mentali che fisiche, con la caparbia determinazione a superare gli ostacoli. Si ritrova anche qui l’impulso volontaristico dell’individuo, l’amore della vita che conduce a sfidare se stessi e le forze insormontabili dell’esclusione sociale. L’individualismo , in questo senso, è presente in Jack London, ma da ciò non discende che egli fosse un individualista. Il fatto è che Jack, come abbiamo detto, era un ragazzo della working class e aveva contato solo sulle proprie forze per non cadere nell’ abisso sociale nel quale era destinato a precipitare. Questo spiegherà nel saggio "Perchè sono diventato socialista":

"(incontrai) marinai, soldati, lavoratori, tutti straziati e distorti e sformati dal lavoro, dagli stenti e dalla sorte, e abbandonati alla deriva dai loro padroni come fossero cavalli invecchiati. Io mi trascinai in giro con loro, e sbattemmo insieme molte porte; o tremai insieme a loro dentro vagoni abbandonati e nei parchi pubblici, ascoltando in continuazione storie personali che iniziavano con gli stessi auspici della mia vita, con uno stomaco e un corpo buoni quanto il mio o anche migliori, e finite lì, davanti ai miei occhi, nel mattatoio in fondo all'Abisso Sociale. E mentre ascoltavo il mio cervello cominciò a funzionare. La donna di strada, l'uomo dei bassifondi si fecero sempre più vicini a me. Vidi l'immagine dell'Abisso Sociale con la nitidezza di un oggetto concreto, e in fondo all'Abisso vedevo loro, e me appena sopra di loro, che mi aggrappavo alle pareti scivolose con l'unico aiuto dei muscoli e del sudore. [ ... ] Penso sia chiaro che il mio individualismo aggressivo mi fu tirato fuori a martellate, mentre qualcos'altro mi veniva inchiodato dentro con la stessa forza. Ma, proprio come ero stato individualista senza saperlo, adesso ero socialista senza saperlo, e per di più, un socialista non scientifico. Ero rinato, ma non avevo avuto un nuovo nome, e mi aggiravo freneticamente cercando di sapere cosa fossi."

Solo con la sua caparbia volontà e forza interiore e dopo tanti sacrifici, riuscì alla fine a diventare uno scrittore di successo (e uno degli scrittori più pagati d’America). La fama e il successo non faranno però di lui un uomo felice, ma anzi gli procureranno un sacco di guai originati da investimenti di denaro sbagliati (ma non solo), tanto che cadrà anche negli eccessi dell’alcool: in un altro grande libro “on the road”, uno di quelli meglio riusciti e completamente autobiografico, “John Barleycorn”, racconterà il suo rapporto di amore-odio con l’alcool, dall’adolescenza fino all’età adulta. Jack London lungi dall’essere ideologicamente individualista era invece anche un militante socialista, uno scrittore che ha lottato per trasformare la società. Molti critici marxisti esalteranno London proprio per le opere di carattere sociale, incentrate sulla lotta di classe e sulla vita del proletariato delle metropoli. “Il Tallone di ferro” si colloca al primo posto in questa parte della narrativa di London. Tra i militanti di sinistra ebbe sempre molto successo; era uno dei libri preferiti di Lenin ed ebbe l’onore di essere pubblicato in un’edizione con l’introduzione di Lev Trotskij. La visione di Jack London sul futuro della società umana però non è ottimistica. Dirà in una sua lettera: “Vedo anni e anni di guerre e sofferenze per la classe operaia. Vedo una classe media ferocemente disposta a tutto per non perdere il potere”. In questo romanzo di fantapolitica riuscirà addirittura quasi a profetizzare, inconsapevolmente, l’avvento del fascismo e del nazismo, quando parlerà delle “Centurie Nere”, i mercenari pagati (nel romanzo) dal grande capitale per reprimere il movimento operaio organizzato. Altra opera di carattere sociale e di denuncia risulta essere “Il popolo dell’abisso”, una sorta di inchiesta sociologica basata sul resoconto di un’estate passata da Jack nei bassifondi più miseri e degradati di Londra. Viene subito in mente l’accostamento con un’altra opera di uno dei colossi del pensiero contemporaneo: “La situazione della classe operaia in Inghilterra”, realizzata da Engels ad appena venticinque anni; una delle prime inchieste sociologiche basate sulla tecnica dell’ “osservazione partecipante”. Dirà Jack nella sua introduzione al libro:

“Sono sceso nei bassifondi di Londra, come un esploratore penetra in regioni inesplorate. Ero deciso a credere solamente a ciò che avrei visto, piuttosto che agli insegnamenti di coloro che avevano scritto senza vedere, o alle parole di coloro che avevano visto e se n’erano andati prima di capire. Inoltre portai con me alcuni semplici criteri per giudicare il mondo sub-umano. Tutto quanto produce maggiore intensità di vita, di salute morale e fisica, è buono; invece, tutto quanto ferisce la vita, la falsa e l’avvilisce, è cattivo.”

Anche questo libro, pieno di tensione morale, non è a ben vedere tanto dissimile da quelli dedicati allo Yukon e alla corsa all’oro. Nelle affermazioni riportate sopra egli fa, come si nota, il confronto con l’esploratore della natura. Cambia lo sfondo dell’azione ma l’intento è sempre lo stesso: non avere paura di confrontarsi col mondo, con le sue miserie e le sue avversità; non avere paura di cercare, di conoscere e di avventurarsi nei contesti ambientali più disparati. Jack denuncerà le terribili condizioni di vita di milioni di diseredati, causate da un sistema economico ingiusto e disumano com’è stato e com’è tuttora il capitalismo. Nel finale del libro, Jack procederà ad un confronto con la vita dei popoli “primitivi”, che egli aveva conosciuto bene in Alaska, e si domanderà se la nostra civiltà, quella industriale, abbia davvero migliorato la vita dell’umanità:
“Allora si pone quest’altra ineluttabile domanda: Se la civiltà ha realmente aumentato la potenza produttiva dell’individuo, perché non ha, contemporaneamente, migliorato le condizioni di vita di tutti? A questa domanda c’è una sola risposta: gestione cattiva. La civiltà ha reso possibile molto benessere materiale, molte gioie intellettuali, a cui l’uomo del popolo inglese non partecipa affatto. E se, per sempre, deve esserne escluso, la civiltà ha fallito la sua missione, e non c’è nessuna ragione perché continui un’organizzazione artificiosa che ha dimostrato in modo così flagrante il suo fallimento. Ma è impossibile che gli uomini hanno costruito invano questo tremendo artificio. Ecco quel che l’intelligenza si rifiuta ostinatamente di ammettere. Accettare una tale disfatta, significherebbe dare il colpo di grazia allo sforzo e al progresso umano. C’è una sola alternativa possibile: costringere la civiltà a migliorare le condizioni di vita del popolo.”

Dopo quasi cent’anni dalla morte di Jack, il progresso della civiltà umana continua ad essere segnato dalle ombre della distruzione e della morte, da guerre e carestie. Le tue domande restano attuali caro Jack, e la sensibilità, la passione che hai messo nella tua vita e in quei libri che noi ancora continuiamo a leggere, il tuo slancio vitale, restano per noi una fonte inesauribile di ispirazione . . .
by Saverio De Marco

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17.10.07

La curvatura del "segno" in Anna Maria Farabbi

[letteratura -5]
Ho ricevuto da qualche giorno il nuovo libro di Anna Maria Farabbi, una silloge bilingue (italiano/tedesco) che vive nel solco della continuità. La magnifica bestia. La sostanza, la discrezione, la misura delle parole. Una parola impastata di fisicità e anima. Quasi masticabile. Quasi pane “mollica del pane” che accoglie. Pasta che lievita e che ci lievita.
Colpisce ancora questo suo verso fatto di pieni e vuoti, di pause e sospensioni. Di ospitalità e accoglienza. Di invocazioni alla “madre”. Di preghiere e appartenenza. Di umiltà e fede. Di gioia “tessendo il baratto”.

Anna Maria Farabbi si racconta così:

Sono presenti in me:
quel bambino cieco, privo di braccia a causa della guerra, che sta leggendo con le labbra, fotografato da David Seymour (Roma 1948), e Jean Dominique Baudy che, non sapendo arrendersi alla malattia, scriveva con le palpebre. Uno mi insegna a leggere e l’altro a scrivere. Entrambi, contemporaneamente: la preziosità del ricevere e l’estenuante pratica di ogni relazione, la profondità del sentire e la parsimonia, cerimonia, del segno.

La curvatura del segno in Anna Maria Farabbi (frammenti di versi):

Trema ogni volta che nomino il cuore
Lo pronuncio non dalla bocca
ma dall’ombelico

dentro cui vive
(p.21)

Ho trovato la matria .... la falda acquifera
l’odore nuovo il suono respirando zitta:
la magnifica bestia nella mollica
(p.37)

Per le cose che sai
barcollo fin dentro casa.
Che manca di tetto e pavimento: è il me

profondo
(p.55)

Porto con me la bestia e la foresta intera
battendo la mia pelle di tamburo.

Il dolore è basso. Cammina
dentro le piante dei piedi.
Mi brucia la pancia.
(p.63)

Le mie ginocchia sono in terra.
C’è molta terra
nelle mie ginocchia. Sono scesa

per sorellanza. Non per stanchezza
interiore.
(p.101)

Comunque sia ovunque
è in terra con me: presente
il fatto è questo.
Vicina o lontana non conta.
(p.103)

Ecco, in Anna Maria Farabbi la poesia si fa nutrimento, sacralità aperta e riconosciuta. Atto d’amore. Respiro lungo. Futuro e memoria. Volontà di cogliere/raccogliere (porgere) trattenere e custodire. L’attimo, un sentire, un fluire.
Ascolto silenzioso di un guardare senza occhi “con il corpo intero”.
8Anna Maria Farabbi, La magnifica bestia (Das Prachtige Wilde Tier), Travenbooks 2007
by Maria Pina Ciancio

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7.10.07

Il "mare dentro" di Alejandro Amenabar

[pellicole -22]
Simbolicamente l’acqua è inizio di tutte le cose; l’acqua è ventre, è madre, è nascita, è simbolicamente eros. L’acqua è generazione allora di qualcosa che prende avvio e che dentro di essa si nutre. Questo quando il soggetto della propria vita è consapevolmente immerso e dall’acqua si fa “battezzare” e cullare. I moti dell’anima non sono però quelli in cui siamo immersi ma quelli che ci immergono; l’emotività nella sua totalità è qualcosa che ci possiede fino a prendersi tutto di noi stessi, fino a scuoterci, come fosse un mare dentro; tiepido o burrascoso questo non possiamo stabilirlo. I moti delle maree non si possono controllare. Avete mai pensato a quante onde e risacche in questo istante si rifrangono sulle rocce o violente seppelliscono qualche pezzo di spiaggia che prima sopravviveva? Ecco che la forza generatrice dell’acqua si ribalta nel suo contrario; ecco come si assiste, nella pellicola di Alejandro Amenábar, al declino di un’esistenza che nell’acqua per caso intravede tutto il futuro. La storia si basa su un fatto di cronaca realmente avvenuto: il protagonista è Ramon Sampedro che, a seguito di un incidente resta paraplegico; l’incidente è appunto casuale e altamente simbolico al contempo perché consente al regista la possibilità di scegliere l’acqua come metafora della vita stessa; un grande apeiron entro il quale si gioca la sorte crudele di Ramon visualizzata in forma circolare. Nell’acqua Ramon ha l’incidente: cade e sbatte la testa ad uno scoglio; perde conoscenza e per un attimo (il regista così fa intendere) galleggia e osserva il fondale; osserva la sospensione del proprio corpo e la distanza tra se stesso e il fondo muto. Quando viene tirato su, la sua esistenza si trasforma in qualcosa d’altro; il fondo muto è l’indistinto; è la caducità della sorte; è l’imprevisto che ti coglie un giorno qualunque e ti ribalta tutto nel suo contrario. Così è andata per Ramon; da attore a spettatore di una vita che prende un’altra direzione, una vita che forzatamente gli impone un’altra prospettiva. Ramon dopo l’incidente diventa infermo e il film racconta cosa vuol dire avere il “mare dentro”. Lo spazio e il tempo per Ramon Sampedro diventano due categorie estremamente sfilacciate; ciò che prima si concretizzava nel fare ora invece è trasformato nel non-fare; ciò che prima era considerato il luogo dell’agire, il mondo e tutte le sue direzionalità, ora è un letto. Il tempo diviene esclusivamente il tempo dell’interiorità; lo spazio solo quello dei suoi pensieri. Mare dentro è una pellicola intensa e struggente sul dolore umano ma soprattutto sull’eventualità; sull’imprevisto che ci coglie impreparati: quello che ci mette di fronte a cose a cui non avremmo mai voluto pensare … per esempio alla dignità del vivere e del morire. Amenabar non pare prendere posizione a riguardo; si limita a raccontare una storia, forse come tante, fatta di sofferenza e sogno, di impossibilità e rimpianti, ma è pur sempre una storia: la storia di un uomo che alla fine decide di morire. Una poetica eccezionale quella di Amenabar che ci ha regalato bellissimi cammini spirituali e crudeli al contempo. Da Tesis ad Apri gli occhi a The Others, percorsi molto diversi ma con una cifra comune, quella della dicotomia costante tra noi e noi stessi che a volte sono Altri o semplici incubi. È pur vero che il mare dentro appartiene un po’ a tutti i protagonisti di Amenabar e, come davanti ad uno specchio d’acqua, capiamo ad un tratto che fa parte anche di noi.
by Alessandra Pigliaru

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